Gloeden’s Darkroom: a Wilhelm non si addice l’amore?

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di Alessandro Paesano

Di Wilhelm von Gloeden sono note le foto di nudo maschile, scattate a Taormina, a cavallo tra ‘800 e ‘900. In realtà il repertorio del barone comprendeva anche nudi femminili, foto di reportage, di architettura, secondo il gusto variegato dell’epoca.
Il suo sguardo sul nudo maschile (di giovani e giovanissimi ragazzi autoctoni che von Gloeden pagava come modelli, dando loro anche una percentuale sugli incassi delle foto vendute) ha creato il primo immaginario collettivo omoerotico occidentale dal quale, ancora oggi, non si può prescindere.

La produzione fotografica di von Gloeden ha trovato resistenze allora come oggi. Dalle accuse di pornografia, dalle quali fu sempre assolto, alle critiche di oggi del neo-puritanesimo statunitense queer che accusa le sue foto di colonialismo culturale e sfruttamento di minori (a quest’ultima accusa si allineano anche le note di regia nel programma di sala) giudicando con l’occhiale culturale statunitense di oggi il clima culturale italiano dell’epoca, adottando dunque un punto di vista altrettanto coloniale…
Certo le sue foto sono il perno su cui ruotava il turismo gay che fece la fortuna di Taormina come succederà a Capri, ma Gloeden non andava certamente a letto con TUTTI i modelli che fotografava…

Sarebbe interessante analizzare piuttosto l’atteggiamento dei carusi siciliani dell’epoca che, un secolo prima dei giovani che oggi lo fanno su onlyfans, avevano capito  che l’immagine del loro corpo poteva essere una merce (non ci riferiamo alla prostituzione ma alla vendita delle fotografie) e posavano per Gloeden (e altri grandi fotografi a lui contemporanei come Galdi e  Plüschow) per denaro ma lo spazio di una recensione non ci consente di farlo.

In questo portato iconologico, culturale e politico si muove il testo di Antonio Mocciola Gloeden’s Darkroom andato in scena al Cometa Off di Roma per la regia di Mauro Toscanelli.
Il testo ci presenta un Gloeden burbero e insofferente, frustrato per l’incomprensione del suo genio, sminuito dall’interesse per il denaro o per i nudi, che svilisce la sua arte, mentre l’uomo  subisce le cure invadenti della sorellastra (stessa madre ma padri diversi)  e i ricatti morali di una madre taorminese che induce suo figlio Sebastiano a spogliarsi per soldi.

I Personaggi, presentati con pochi icastici tratti, sono resi ancora più eterei dalla scenografia, composta da tanti veli posti dinanzi i praticabili sui quali si muovono, mentre sulla sinistra campeggia una struttura a cornice nella quale compaiono, fantasmatici, i modelli di Gloeden. Personaggi che, illuminati dietro i veli, appaino come sagome, veli dai quali emergono alla vista nella penombra dello studio di Gloeden.
Gloeden sembra aver perso l’entusiasmo per le foto, perché i modelli gli vengono imposti (la madre taorminese tornerà a chiedere un’altra posa dopo aver scoperto le mutande insanguinate di Sebastiano) un ricatto che il barone decide di subire anche dietro consiglio  della sorellastra, che sembra amministrare l’aspetto economico del suo successo, ma non si capisce chi dei due controlla l’altro, l’altra, tramite questo passaggio di denaro.

Poi avviene l’impensabile.

Gloeden si innamora di un giovane straniero del veneto, Teodoro, che dice di non conoscerlo, e non è venuto per farsi fotografare.
Mentre la sorellastra cerca di disfarsene comprandolo, invano, col denaro, Wilhelm e Teodoro si frequentano, Gloeden lo porta con sé alla villa di don Peppino, il prelato locale  (dove, ci viene detto, si organizzano degli incontri sessuali con giovanissimi).
Teodoro si sottrae agli occhi dei convitati che – dice – vorrebbero spogliarlo e cammina sotto la pioggia, con Gloeden. Lì si rincorrono, si denudano e, in una delle scene di amore e seduzione più belle che abbiamo mai visto a teatro, si riparano dall’acqua prima che Teodoro ghermisca il barone (il gesto deciso della sua mano che si posa sul pube dell’uomo) e non il contrario.
Quando la sorellastra si allea con la madre di Sebastiano per sbarazzarsi di Teodoro (per tema che il fratello possa soffrire ma, anche, per gelosia) un colpo di scena cambia le carte in tavola.
Gloeden torna a essere la vittima (com’è fin dall’inizio visto che il fotografo chiama il nome di Teodoro sin Dali primi momenti dello spettacolo), questa volta del popolo anarco-socialista, confermando il destino di sofferenza cui ogni personaggio omosessuale è verghianamente condannato.

Una chiusa deludente per una pièce che sa muoversi con rara sensibilità tra omoerotismo  e scene di nudo, mai esibite ma sempre pertinenti e necessarie alla storia, cui ogni attore regala con grande generosità la propria presenza, il proprio corpo, la propria carne.

Accanto ai momenti riusciti (non possiamo non menzionare anche quello che vede  Sebastiano, la madre e la sorellastra di Wilhelm che osservano, seduti su degli sgabelli, da dietro i velatini della scena, un’uscita di Wilhelm e Teodoro, incarnando il ludibrio di allora che è, ahinoi, ancora quello di oggi) ci sono delle scelte registiche poco a fuoco, come la sequenza di un sogno di Wilhelm nel quale compaiono tutti i personaggi, senza una vera necessità, o una danza improvvisata con le seggiole un po’ troppo da sagra paesana.

Da alcuni dettagli poco aderenti alla Storia (Gloeden faceva fotografie en plein air non nello studio; quando Gloeden scatta le foto, tra uno scatto e il successivo bisognava inserire una nuova lastra di vetro, le foto quindi non potevano essere prese in sequenza come mostrato in scena) capiamo che la darkroom del titolo, quella camera oscura dove si sviluppavano i negativi e si stampano  le fotografie, non dove le si scattavano, non si riferisce alla cultura dell’epoca, al wunderkammer, la stanza delle meraviglie che attestava un certo gusto esotico mitteleuropeo, ma si riferisce alla cultura contemporanea (dove, nella sotto-cultura gay, Darkroom si riferisce a una stanza buia dove si fa sesso) dal punto di vista della quale  Mocciola scrive un omaggio personale al grande fotografo, poco interessato alla Storia, con un racconto che non si libera mai del pessimismo del martire ma che sa regalarci un’ora e mezza di spettacolo onesto, vivo, nel quale ogni personaggio  irradia un’aura di autenticità che emoziona e a tratti commuove. Merito anche degli e delle interpreti.

Il Teodoro di Salvo Lupo fa innamorare dopo la prima risata; il Sebastiano di Cristiano Migali racconta col linguaggio del corpo prima ancora che con le battute tutto il vissuto di caruso senza padre (almeno così dice la madre…) che si vergogna a spogliarsi davanti Gloeden, mentre la madre taorminese di Silvia Casadei sembra uscita da una delle foto di Verga (che in quegli stessi anni faceva foto anche lui).
Francesco Giannotti ci regala un Gloeden sanguigno e al contempo vulnerabile mentre Serena Borelli sa restituire tutta l’ambiguità del desiderio di tutela e controllo che prova nei confronti del fratello.

Meno convincenti, anche nella recitazione, i monologhi che aprono e chiudono la pièce che vagheggiano un Gloeden che cerca di fare arte con la parola. Quello di Mocciola ci prova (con scarsi risultati) quello storico invece faceva arte solamente con la luce per impressionare delle grandi lastre di vetro (molte delle quali distrutte durante il fascismo).
Gloeden’s Darkroom ha il grande pregio di trattare l’amore tra uomini senza quell’automatismo da teatro omosessuale (in qualunque maniera si voglia intendere la locuzione) attingendo allo stesso afflato che animava l’occhio di Gloeden, mosso dal desiderio di celebrare l’amore per i ragazzi non dal mero richiamo dei sensi.

Peccato per tratti misogini con cui sono descritti alcuni dei comportamenti dei personaggi femminili sempre pronti a vessare il maschio, debole perchè omosessuale e incapace di difendersi.
Imperdonabile il mancato lieto fine (ma, almeno, nessuno muore) perchè non corroborato dalle vicende del personaggio storico, e diffonde l’idea, classica, omofoba e vetusta, che  gli omosessuali rimangono da soli perchè avere un amore vero non è loro concesso.
Una concezione che ha fatto il suo tempo e deve lasciare spazio a un amore vissuto e coltivato senza strazi perchè i tempi sono pronti proprio come, mutatis mutandis,  lo erano all’epoca di Gloeden.

 

GLOEDEN’S DARKROOM
di Antonio Mocciola

con Francesco Giannotti, Serena Borelli, Salvo Lupo, Cristiano Migali e
Silvia Casadei
Regia Mauro Toscanelli

 

Visto per voi al Teatro Cometa Off di Roma il 3 febbraio 2024

 

 

 

(7 febbraio 2024)

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