Mistero Profano. All’Uscita: un teatro a regola d’arte #vistipervoi

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di Alessandro Paesano

All’Uscita è uno dei testi teatrali più particolari di Pirandello. Scritto per il teatro nel 1916 ma destinato alla narrativa, viene messo in scena per la prima volta all’Argentina di Roma nel 1922, dalla compagnia di Lamberto Picasso. L’atto unico risente delle letture teosofiche di Pirandello e anche di quanto accade nella sua vita, privata (la morte della madre, la partenza del figlio Stefano per il fronte) e non (l’entrata dell’Italia in guerra).

I personaggi

Il testo ritrae alcune anime (che Pirandello chiama apparenze) appena distaccatesi dal corpo fisico (e dunque appena morte) che si incontrano all’uscita secondaria di un cimitero, all’uscita da questo mondo ma non ancora pienamente nell’aldilà.

Ogni presenza sembra trattenuta nel nostro mondo da un desiderio personale e intimo. L’uomo grasso attende che muoia la moglie fedifraga, un bambino vuole mangiare una melagrana (tutta per sé), la moglie fedifraga (la cui apparenza arriva a causa dell’amante che l’ha uccisa) anela una maternità che non ha mai avuto.

Infine il filosofo in cerca della verità il quale che, non trovando soddisfazione alla sua brama, rimarrà là, così dice, a ragionare.

La teosofia

Il tema della morte, delle persone morte e degli esseri umani è occasione per Pirandello di riprendere alcuni temi teosofici (il corpo astrale che è una dimora oppure carcere dell’anima), che qui non possiamo analizzare (rimandiamo al bel saggio di Paola Culicelli  su Pirandelliana n. 10, anno 2016), temi che costituiscono un testo tutto parlato dove poco sembra accadere.

Lo spettacolo

La messinscena di Cinzia Maccagano restituisce l’atto unico alla pratica teatrale, investendolo di un vigore e di un rigore drammaturgici sorprendentemente genuini e fedeli allo spirito Pirandelliano.

Maccagano non indulge in psicologismi né in soluzioni registiche cinematografiche (apparizione e sparizione delle apparenze, dislocamento dei personaggi, come in messinscene passate, anche celebri) resistendo alla tentazione naturalistica di mostrare il cimitero in cui l’atto unico si svolge presentando al pubblico una scena spoglia, come si addice al teatro, che evoca luoghi e cose e non le mostra.

Dalla performance al testo e viceversa

Maccagano ricerca e propone una recitazione misurata e controllatissima che non eccede mai nell’effetto drammatico ma alleggerisce le situazioni strazianti del racconto (il femminicidio della moglie fedifraga tradotto in un tango tra la moglie e l’amante) con un’impiego intelligente della fisicità dei suoi attori e delle sue attrici.
Mentre mette in scena il testo con grande rispetto e precisione Maccagano lo declina con un amore per il teatro attento prima di tutto alla fisicità del suo farsi, impegnando gli e le interpreti in un uso del corpo quasi da performance mentre restituisce la parola di un testo importante.

Gli attori

Così Raffaele Gangale e Dario Garofalo esplorano lo spazio scenico con l’ausilio di due sedie di legno microscopiche sulle quali si siedono o salgono con perizia atletica; recitano anche sdraiati, senza perdere efficacia nell’emissione della voce; si fronteggiano quasi in una danza, senza tradire mai la verità del testo.

Le attrici

Luna Marongiu è in scena sin dall’inizio dello spettacolo, incapsulata in un tessuto che la sagoma in una forma a metà tra la statua e la fantasma, restando ferma, immobile su un tavolo di piccole dimensioni, sul quale rimane immobile anche quando il tavolo viene spostato per la sua apparizione in scena, uscendo dal tessuto bianco ed elastico che la nascondeva, come fosse un bozzolo, rievocando un parto, una venuta non a questo mondo, però, ma a quell’altro.

Cristina Putignano agisce invece in disguise fornendo ausilio alla messinscena in molteplici forme, come quando appare come l’amante della donna uccisa nella scena del tango.

La recitazione

Una regia esigente anche nell’andare in sinergia con la musica (i movimenti di Marongiu che vanno all’unisono con la partitura musicale) o nell’interagire con una illuminazione evocativa, compreso un uso non banale della luce blu (lampada luminol), quando il filosofo parla delle dimore per i sentimenti che gli esseri umani allestiscono durate la loro vita di apparenza e la biacca che scolora i volti dei due attori si trasforma in un disegno che percorre faccia e vestiti.

Una fisicità recitativa che non va mai a discapito della parola, restituita con una attenzione e un grandissimo riguardo per le intenzioni di tutti i personaggi.

Il finale

Elegantissima e altrettanto emozionante la parte finale, quando, mentre le apparenze iniziano a svanire, nell’atto unico entrano in scena dei personaggi in vita (un uomo, una donna, una bambina e un asino).

Una entrata in scena che Maccagano risolve con una soluzione teatrale indovinatissima, che non vi vogliamo svelare per lasciarvene la sorpresa durante la visione, e che suggella uno spettacolo che è un atto d’amore per il teatro e per il pubblico chiamato ad assistervi.

Un piccolo (solamente perché è un atto unico) gioiello allestito con sensibilità, intelligenza e amore, da vedere e rivedere, e che merita tutto il successo di questo mondo e dell’altro.

Visto per voi a Roma il 9 febbraio 2023 al teatro Lo Spazio.

 

 

(10 febbraio 2023)

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