di Stefano Cangiano twitter@stefanocangiano
Esiste un teatro autentico, fatto di materia narrativa, sentimenti, forza, e un teatro di maniera che di fronte alle sfide poste dal soggetto della rappresentazione non riesce ad andare oltre la superficie. Dark Vanilla Jungle, andato in scena al Teatro dell’Orologio di Roma fino all’8 maggio, sembra appartenere al secondo tipo di teatro.
Le premesse per un lavoro interessante sono tutte dentro la drammaturgia di Philip Ridley, che in quest’opera scandaglia le regioni più remote e brumose della psiche, portando sulla scena debolezze e abissi umani, esplorando il torbido come sostanza privilegiata del racconto.
Andrea ha 15 anni e due genitori che l’hanno sottoposta alla più traumatica delle dinamiche familiari, l’abbandono. Il padre è andato via quando aveva 5 anni ed è stato in prigione, poi anche la madre l’ha lasciata sola e così Andrea si è ritrovata a vivere con la nonna, sviluppando una patologica necessità di amore. Si lega a un uomo che, mentendo, la costringerà ad altre umiliazioni e sofferenze, in un crescendo che la porterà a ricostruire fuori di sé la realtà che le si è formata dentro, coinvolgendo nella sua finzione anche altre persone, fino a quando il reale si impone e il trauma si manifesta in una forma estrema.
Il dolore, la crudeltà di una vita in cui nulla è soggetto alla volontà della protagonista del monologo, la profondità della sofferenza in Dark Vanilla Jungle sono solo evocati dalle parole. Nell’adattamento di Carlo Emilio Lerici ci sono spunti a livello della costruzione dello spazio scenico, che rende con efficacia la costrizione in cui si muove la protagonista, ma manca un’idea organica che sostenga la messa in scena, dove Monica Belardinelli cerca di supplire con l’energia sincopata della sua interpretazione. Quello che viene voglia di chiedere è uno scatto in più dell’autenticità a cui si accennava prima. Invece il risultato di questo spettacolo è una tipizzazione della rappresentazione in cui a emergere è un insieme di convenzioni e non la persona. Così si sta sospesi tra due possibilità mancate, quella di lasciare che i turbamenti abbiano campo libero e quella di imporre un punto di vista lucido, che attraverso la giusta distanza faccia percepire con la stessa forza il nucleo di emozioni che è alla base della drammaturgia. Nel mezzo c’è uno spettacolo che avrebbe potuto spiccare il volo e non lo ha fatto.
(9 maggio 2016)
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