di Andrea Mauri
Si può dire che l’assenza sia il filo conduttore del testo di Annibale Ruccello Anna Cappelli, visto al Teatro Cometa Off di Roma. Splendida opera con Giada Prandi, bravissima attrice, e la regia convincente di Renato Chiocca.
Un cubo aperto è al centro della scena, l’assenza di pareti, l’assenza di protezione di una vera casa, quella che Anna ricerca ossessivamente nella mediocrità della sua esistenza. La ricerca a ritmo di musica, “La Bambola” di Patty Pravo: Anna gira su sé stessa fino a perdere l’equilibrio, la cognizione dello spazio e del tempo, l’oblio come valvola di sfogo. Una donna che negli anni ’60 si trasferisce da Orvieto a Latina per un impiego modesto, una routine senza scossoni; l’eco del boom economico, una chimera irraggiungibile per molti.
Anche in Anna Cappelli (scritto nel 1986, l’ultimo testo del drammaturgo prima della sua morte), come nelle altre opere, Annibale Ruccello mette in scena una donna forte, fuori dagli schemi, che fa della ribellione una ragione di stare al mondo, ma al cospetto delle prime difficoltà si sgretola, lascia invadersi dalla disperazione e scoperchia una certa follia ben annidata nella sua personalità.
L’assenza, dicevamo, come motore della vicenda. Fin dalle prime battute del monologo Anna vive una solitudine interiore nella sala da pranzo che condivide con la proprietaria di casa, la signora Tavernini, voce della morale borghese e benpensante. Anna mangia da sola, cerca di instaurare una conversazione qualsiasi con la proprietaria, si sforza di superare un silenzio opprimente, sempre in agguato nella tristezza di quella casa. È l’assenza dell’interlocutore, non solo fisica in scena, ma anche in una relazione seppur minima con l’altro, a far riflettere la protagonista sulla sua vita, sulla quotidianità di un lavoro insoddisfacente, sulle serate trascorse in quella maledetta casa.
L’assenza e la solitudine scavano nell’intimo di Anna Cappelli: il desiderio di riempirle con la normalità sventolata dai tempi nuovi e dalle convenzioni sociali; l’invidia per la sorella maggiore, già fidanzata, pronta al matrimonio; il rancore nei confronti dei genitori che per agevolare la sorella, sottraggono la stanza da letto di Anna per darla a lei. Ecco riemergere l’assenza, il vuoto riprodotto anche in famiglia, da cui Anna fugge trasferendosi per lavoro, dove però torna per le vacanze e a seguire il resoconto triste che ne fa in ufficio al ritorno.
Giada Prandi, nei panni della protagonista, è bravissima ad accompagnarci nelle parti recondite della personalità di Anna Cappelli. La mimica facciale, gli spostamenti all’interno del cubo, i cambi d’umore, tutto attraversa il corpo dell’attrice e i nostri corpi. Ci sentiamo prossimi alla solitudine di Anna, allo squallore dell’ufficio, raccontato magistralmente con poche battute, desolazione descritta per sottrazione, di nuovo l’assenza di orpelli nella scrittura. Assenza di qualsiasi rapporto con i colleghi di lavoro, tranne quel triste ragioniere Tonino Scarpa, che si accorge di Anna, la corteggia, rappresenta la via di fuga alla solitudine soffocante.
Le battute serrate, i balbettii, le interruzioni, i toni enfatici, i ritmi sintetici spingono Anna nel sogno di una vita comune a tante altre donne. Tanto è il suo desiderio, che compie un atto di ribellione: decide di convivere con il ragioniere Scarpa senza sposarsi. Accetta le condizioni di lui senza preoccuparsi delle conseguenze. Annuncia soddisfatta alla signora Tavernini che lascerà quell’appartamento asfissiante, che puzza di fritto, nonostante le critiche della proprietaria per la scelta di una donna di convivere con un uomo more uxorio.
Le prime crepe nella personalità di Anna si aprono da questo momento. Diviene sempre più possessiva, una mania di controllo della nuova casa, sontuosa, dodici stanze di agio. Arriva a chiedere il licenziamento della vecchia cameriera; Anna si sente spiata, controllata, ma soprattutto si sente ospite, non la legittima fidanzata di un codardo. Il moto di ribellione si smorza a poco a poco. Pur di riempire la solitudine, accetta le altre condizioni del ragioniere; per lui lascia il lavoro, rinuncia ad avere figli. Se apparentemente queste scelte possono sembrare contro la morale borghese imperante, in realtà si ancorano al desiderio più borghese di tutti: l’amore di chicchessia a tutti i costi. Ma l’incantesimo si spezza, quando il ragioniere Scarpa vuole vendere la casa e trasferirsi in Sicilia da solo, senza Anna.
La nuova, inattesa assenza del sogno sconvolge la personalità turbata della protagonista. Tutto è perso: casa, lavoro, amore. È anche un’assenza di futuro che la porta nel baratro della follia. La paura di essere spossessata dei suoi oggetti e del suo uomo. Non vuole lasciarlo andare e l’unico gesto che ritiene possibile per elaborare il lutto è quello di ucciderlo e mangiarselo. La disperazione di Anna è al culmine. Lei vuole riempirsi del corpo del ragioniere, pianificando i giorni in cui riuscirà a mangiarlo e progettando di fare candele con le ossa dell’amato per poi incendiare la casa. Quella proprietà, a quel punto, deve rimanere di Anna. Lei vuole riprendersi la sua dignità e può farlo solamente con un atto purificatore, quello della morte.
La protagonista torna a girare su sé stessa, come all’inizio. Ora è in preda alla follia, grida aiuto ripetutamente, si dispera, comprende che tutto è finito, perché non ha il coraggio di gestire da sola il folle gesto architettato.
È l’assenza di reazione, di empatia, di dignità, che in fondo hanno caratterizzato sempre tutta la sua vita.
Giada Prandi
ANNA CAPPELLI, STORIA DI UN’IMPIEGATA NELLA LATINA DEGLI ANNI ’60
di Annibale Ruccello
Regia di Renato Chiocca
Visto per voi al Teatro Cometa Off di Roma il 26 febbraio 2025.
(27 febbraio 2025)
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