Il Grande Vuoto, uno spettacolo indimenticabile

313
foto: Laila Pozzo

di Andrea Mauri

C’è qualcosa che stringe lo stomaco e sfilaccia il cuore in quell’utilitaria rossa, un vecchio modello di auto, in mezzo alla scena vuota, mentre gli spettatori occupano i posti in platea. Non si riesce a smettere di guardare quell’ingombro triste, ricoperto di foglie autunnali, spostate da una lieve corrente che arriva dalla parete di fondo, tutta lamine nere e argento. La sensazione è che lo spettacolo al quale si sta per assistere sarà una morsa nel corpo che lascerà il segno.

Il Grande Vuoto al Teatro Vascello di Roma trova risonanze e spunti in “Una donna” di Annie Ernaux, e nel romanzo “Fratelli” di Carmelo Samonà ed è il tentativo di raccontare una grande storia d’amore: quella tra una madre, i suoi figli e un padre che muore.

Sappiamo che la storia è quella degli ultimi attimi di una famiglia prima di dissolversi nel dolore e nel tempo. Aspettiamo però che da qualche parte del palco accada qualcosa che smentisca la nostra sensazione, ma lo sguardo non può distogliersi da quell’utilitaria rossa.

Improvvisamente dal fondo della scena arriva una coppia di anziani, intenta nei gesti quotidiani dal ritorno della spesa; nei dialoghi ricordano la gioventù, parlano dei due figli Piero (Piero Lanzellotti) e Francesca (Francesca Farcomeni), degli screzi e delle schermaglie d’amore, della passione che illumina ancora i loro occhi. La macchina non parte, aspettano il soccorso dei figli ed ecco apparire il primo elemento, qualcosa che stona, un segnale di ciò che accadrà: una borsa lasciata dalla donna (Giusi Merli) sul tettuccio dell’auto, ma che dietro le insistenze del marito (Ermanno De Biagi), lei nega di averne la colpa; mica sono scema, continua a ripetere.

Siamo già agganciati alla storia e ci perdiamo nella nube fitta che avvolge l’interno dell’auto. Arrivano i figli che sistemano la scena, spostano la macchina, trasformano il palco nell’interno di un appartamento durante un pranzo domenicale: la tv accesa sulla partita di calcio della Lazio, un mobile con scaffali tra libri e ninnoli vari, vetrine che ospitano il servizio buono delle occasioni di festa. Al centro della scena la tavola del pranzo.

Non sappiamo cosa sia accaduto nel mezzo, dalla nube all’appartamento; nei gesti ripetitivi e nei discorsi rilassati di un tranquillo raduno famigliare, la madre blocca il pensiero e la parola sulla parte mancante del tavolo, non apparecchiata, quella del marito, ricordo di anni addietro. Evoca senza cessare una matrioska dorata, acquisto a San Pietroburgo durante la tournée della sua carriera di attrice.

La matrioska è il cardine della storia, il dettaglio che evidenzia la demenza senile della donna, la richiesta ripetitiva ai figli e alla badante (Mona Abokhatwa per la prima volta in scena) di avercela tra le mani, accarezzarla e pronunciare come mantra: non mi ricordo quanto mi è costata, l’ho comprata a San Pietroburgo.

Da quel momento la famiglia inizia a sfaldarsi. I figli vorrebbero resistere alle leggi della natura, a volte facendo finta di niente e rimuovendo la malattia della madre, altre volte abbandonandosi a crisi che sembrano bloccare ogni via di uscita a una situazione di cui tutti conoscono la fine. Ma l’interrogativo che sta al centro del lavoro teatrale è il seguente: possiamo trasformare il dolore in bellezza? Ci abbiamo mai provato?

Sta in questa domanda lo sforzo della famiglia di restare unita e ancora la matrioska di San Pietroburgo. Quell’oggetto apparentemente insignificante evoca l’unico ricordo fermo della madre quando era attrice: il monologo del Re Lear. Fabiana Iacozzilli (autrice e regista dello spettacolo) affida proprio a Re Lear, una tra le più cupe tragedie di Shakespeare, il compito di trasfigurare il dolore attraverso il filtro teatrale. Mentre gli oggetti del passato, i ricordi di una vita, vengono rovesciati sulla tavola della domenica (bambole, pupazzi, uomini ragno, calamite, pistole ad acqua, oggetti quasi tutti infantili), la madre recita il monologo, più sicura all’inizio, poi sempre più indecisa, confondendo uno degli attori della commedia con Ciro Immobile, l’attaccante della Lazio, la squadra amata dal marito ormai morto.

L’ultimo pezzo di vita di questa famiglia è il più commovente, messo in scena anche attraverso dei video che entrano nella vita della donna malata, quando è in casa da sola, mentre va al bagno, si prepara per la notte, vaga con il corpo stanco, fino a spogliarsi in camera da letto, mostrando il seno nudo nella bellezza degli anni della vecchiaia. Perché un figlio può continuare a vivere la propria vita ed entrare senza essere visto in quella del proprio genitore.

La morsa allo stomaco e lo sfilacciamento del cuore sono ancora lì, anzi si intensificano nell’ultima scena. La madre ha ormai bisogno dei suggerimenti della figlia anche per recitare il monologo del Re Lear, il suo cavallo di battaglia. La fine dei legami si trasforma in gioco, la madre è avvolta da un telo fiorato come mantello regale e la figlia, mentre le anticipa all’orecchio le battute, estrae da uno scatolone dei ricordi una corona che poggia sulla testa della madre. Coriandoli scendono dal cielo e la corrente dell’inizio dello spettacolo, che spostava le foglie autunnali, ora diventa vento a scompigliare i capelli bianchi e arruffati di una donna che smette di riconoscere anche sé stessa.

Il Grande Vuoto è il terzo capitolo della Trilogia del vento di Fabiana Iacozzilli – dopo La Classe e Una cosa enorme. Un trittico in cui l’autrice si interroga su tre tappe dell’esistenza umana: l’infanzia e il rapporto con i maestri che ci mostrano o ci impongono delle vie da percorrere (La classe); la maturità e il rapporto con la genitorialità e la cura (Una cosa enorme) e, infine, la vecchiaia in rapporto con il vuoto e il senso della memoria (Il grande vuoto).

Applausi e standing ovation alla fine dello spettacolo e lacrime sparse un po’ ovunque.

foto: Laila Pozzi

IL GRANDE VUOTO
uno spettacolo di Fabiana Iacozzilli

regia Fabiana Iacozzilli
drammaturgia Linda Dalisi, Fabiana Iacozzilli
dramaturgia Linda Dalisi
con Ermanno De Biagi, Francesca Farcomeni, Piero Lanzellotti, Giusi Merli e con Mona Abokhatwa per la prima volta in scena
produzione Cranpi, La Fabbrica dell’Attore-Teatro Vascello Centro di Produzione Teatrale, La Corte Ospitale, Romaeuropa Festival
con il contributo di MiC – Ministero della Cultura, Regione Emilia-Romagna
con il sostegno di Accademia Perduta / Romagna Teatri, Carrozzerie n.o.t, Fivizzano 27, Residenza della Bassa Sabina, Teatro Biblioteca Quarticciolo

 

 

(30 gennaio 2025)

©gaiaitalia.com 2025 – diritti riservati, riproduzione vietata