di Andrea Mauri
“Vorrei una voce” è uno spettacolo bellissimo. Sconvolge sulla scena, sconvolge la notte e sconvolge i giorni a venire. Perché non si può smettere di pensare a questo gioiello, scritto e interpretato dal bravissimo Tindaro Granata.
Il monologo è costruito sulle canzoni di Mina nel suo ultimo concerto a “La Bussola” il 23 agosto 1978 e prende forma dall’esperienza che l’attore ha svolto all’interno del carcere femminile di massima sicurezza di Messina. Un percorso teatrale con alcune delle detenute che interpretavano in playback due pezzi della cantante per esprimere il loro desiderio di libertà, liberarsi delle angosce, delle paure, del dolore e soprattutto dare corpo ai sogni.
La capacità di sognare, ecco il nucleo dello spettacolo
La perdita dei sogni che quelle ragazze hanno raccontato a Tindaro Granata e che l’attore porta in scena, interpretandole con maestria, assumendone le sembianze attraverso un semplice cambio d’abito, usando con bravura il dialetto, ora in forma ironica, ora in forma tragica.
Come racconta Tindaro Granata durante lo spettacolo, “ero un giovane uomo, lavoravo, avevo una casa, una macchina e soprattutto persone che mi amavano, ma avevo smesso di provare gioia per quello che facevo, non credevo più in me stesso e in niente. Non so come sia successo. Un giorno mi sono svegliato e non mi sono sentito più felice, né di fare il mio lavoro né di progettare qualsiasi altra cosa. Quando mi arrivò la telefonata di Daniela Ursino, direttore artistico del teatro Piccolo Shakespeare all’interno della Casa Circondariale di Messina, con la proposta di fare un progetto teatrale con le detenute per farle rivivere, sognare ritrovando una femminilità perduta, capii, dopo averle incontrate, che erano come me, o forse io ero come loro: non sognavamo più.”
Assunta, Jessica, Sonia, Vanessa, Rita sono le ragazze che Tindaro Granata ci racconta. Sul palco c’è solo lui, ma lo spazio sembra affollato delle vite che sono anche le nostre. Lo sforzo di tornare a sognare, immaginare famiglie buone, cancellarne la violenza, le parti sghembe e scassate che le hanno condotte in carcere. Quelle famiglie storte sono le stesse del pubblico, la stessa di Tindaro Granata che alla narrazione delle ragazze intreccia la sua, di famiglia, attraverso sapienti passaggi di interpretazione per giungere al culmine dell’emozione con le canzoni di Mina che l’attore canta in playback.
Un playback perfetto, tanto che durante i pezzi musicali, Tindaro Granata quasi si trasforma e in certi passaggi assume le sembianze di Mina nella gestualità e nell’espressione del volto. Sul palco avviene qualcosa di magico.
Il pubblico rimane agganciato e si percepisce la sintonia dei sentimenti con quello che accade sul palco e forse la percepisce anche l’attore, che sembra assorbire l’emozione della sala. Fino al termine della musica per poi ripiombare nella storia delle ragazze e sull’altro loro grande interrogativo: che cos’è la libertà? Con la delicatezza dell’interpretazione di Tindaro Granata, che indossa strepitosi abiti in paillettes, capiamo che la libertà non è altro che il teatro, lo spazio scenico all’interno del carcere, che non possiamo vedere, ma che immaginiamo attraverso le parole di Assunta, Jessica, Sonia, Vanessa, Rita. In teatro non ci sono sbarre, c’è solo il sipario a dividere realtà e immaginazione; il teatro in carcere è l’unico luogo senza sbarre. Salire sul palco è un atto di libertà e questa consapevolezza riporta le donne a sognare, fors’anche involontariamente, di sicuro a riaccendere qualche speranza. Libertà è pure accendere la fantasia, trovarsi a fare i conti con nuove emozioni, poter persino parlare con il figlio morto nella massima espressione immaginifica, come accade a una delle donne.
Tindaro Granata racconta la difficoltà di entrare in contatto con un mondo così distante dal suo e dal nostro vivere quotidiano e di guadagnarsi la fiducia di quelle ragazze, perché davvero si potessero aprire e regalargli i loro vissuti. Famiglie disfunzionali, figli assassinati, tradimenti, amori costretti, fallimenti, quella vita che lo spettacolo rende universale. È la stessa sua famiglia che l’attore racconta.
Il dolore delle donne detenute nel carcere di Messina è quello di Tindaro Granata e su questo punto in comune scatta l’immedesimazione. Ma è anche l’immedesimazione del pubblico, che così lontano dall’esperienze delle ragazze al centro della storia, vede il carcere sul palco, vede le donne e il loro dolore, anche se sulla scena c’è una sola persona.
Tindaro Granata porta dentro di sé le sue ragazze, come le chiama. Non poteva portarle sulla scena, ma nemmeno lo voleva, perché quell’esperienza doveva rimanere con loro e per loro. Era giusto che restasse all’interno del carcere. Di loro, porta con sé i sorrisi, le lacrime, i gesti, gli occhi. E la forza di recuperare la vita, la voglia di riscatto, di recuperare quello che il carcere annienta.
Un’energia vitale che si carica di potenza attraverso le canzoni di Mina, e che investe il pubblico con gli occhi incollati sulla scena, sperando che lo spettacolo non finisca mai.
Aspettiamo con impazienza il ritorno a Roma di Tindaro Granata, questa volta al Teatro Vascello dal 28 marzo al 6 aprile 2025 con lo spettacolo “La pulce nell’orecchio” di Georges Feydeau.
Vorrei una voce
di e con Tindaro Granata
con le canzoni di Mina | ispirato dall’incontro con le detenute-attrici del teatro Piccolo Shakespeare all’interno della Casa Circondariale di Messina nell’ambito del progetto Il Teatro per Sognare di D’aRteventi diretto da Daniela Ursino | disegno luci Luigi Biondi | costumi Aurora Damanti | regista assistente Alessandro Bandini | produzione LAC Lugano Arte e Cultura | in collaborazione con Proxima Res | partner di produzione Gruppo Ospedaliero Moncucco
(15 novembre 2024)
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