di Giuseppe Sciarra
Nota polemica: Trovo sconfortante e mi fa rabbia (a dir poco) che ci sia gente in platea che non spegne i cellulari. Questa questione di tenere accesi i telefonini durante lo svolgersi di uno spettacolo è allarmante. Più volte una suoneria è suonata disturbando la sacralità rituale della pièce, più volte sono vibrati a unisono dei cellulari; forse la medesima persona chiamava più gente contemporaneamente. Denunciamo dalle pagine di Gaiaitalia.com Notizie la maleducazione di persone che vengono a teatro, pagano un biglietto e non si sa perché – altrimenti avrebbero la decenza di non disturbare uno spettacolo e gli intesserebbe sul serio ciò che vedono. Proponiamo multe a chi non spegne i cellulari nei teatri con qualcuno che vigili sul corretto funzionamento dello spettacolo, in platea e riprenda l’indelicatezza di alcune persone che non rispettano non solo chi guarda ma in particolar modo il lavoro altrui.
E ora lo spettacolo. Docente dell’accademia d’arte drammatica Silvio D’Amico, regista sperimentale e avanguardista, aperto alle contaminazioni con altre discipline come quella circense o la video arte, Giorgio Barberio Corsetti (classe 1951) sembra accorpare in sé alcuni elementi dei grandi registi teatrali italiani, dallo studio matematico dello spazio scenico (Luca Ronconi), alla resa simbolica del corpo dell’attore con abiti e oggetti che ricalcano non solo un carattere o una maschera ma un’epoca (Giorgio Strelher). Corsetti come ogni buon sperimentatore che si rispetti non si risparmia nelle scelte artistiche e nella reinterpretazione di testi teatrali che hanno dei codici di messa in scena che trasgredire è sempre azzardato, soprattutto se sono dei classici del teatro occidentale.
Shakespeare è il poeta, drammaturgo, scrittore più amato e portato in scena di sempre, chiunque si è misurato col grande autore inglese l’ha fatto con la consapevolezza di avere a che fare con un artista dell’anima, per cui dare voce alle sue parole struggenti, alle sue amare e sagge riflessioni sulla vita e la natura dell’uomo, al suo filosofeggiare sui sentimenti contrastanti di ogni essere umano è un’arma a doppio taglio che può rivelarsi trionfale o un completo fallimento. Corsetti ama osare. Il suo teatro è caratterizzato da una molteplicità di linguaggi ben amalgamati che possono spiazzare i puristi; quelli che non vogliono un’elaborazione troppo barocca o distante dalla visione classica di un dramma o una commedia shakesperiana e possono infuriarsi come vere e proprie belve feroci, difficili da domare, davanti a uno Shakespeare che trascende troppo Shakespeare. L’Amleto di Giorgio Barberio Corsetti presentato nella meravigliosa cornice del teatro Argentina non può che essere perciò un Amleto divisivo perché il suo regista travalica quei codici di messa in scena a suo piacimento.
La messa in scena e la scenografia dell’Amleto di Giorgio Barberio Corsetti sono straordinarie e inattaccabili. Linguaggio moderno e linguaggio classico si incontrano attraverso due grosse impalcature con piani inclinati, giardini all’ultimo grido di abitazioni di lusso, scale che portano a camere da letto di principesse sole o di regnanti che vivono turpi passioni sporche di sangue, palestre in casa dove allenarsi a fare boxe e correre sul tapis roulant. Gli attori e i tecnici di questo imponente spettacolo si aiutano a vicenda nei cambi di scena e nei complicati mutamenti di scenografia; difficili da spiegare per quanto molteplici e porta voci di un mondo che è l’inconscio del principe di Danimarca, la parte celata in ciascuno di noi, il caos dell’emozione che raggiunge il suo apice delicato nel passaggio tra età giovane a età adulta. Questo passaggio viene messo in evidenza con una trovata che ricorda una famosa trasposizione del Re Lear di Giorgio Strelher con Ottavia Piccolo, Tino Carrara e Gabriele Lavia. I giovani lì, come in Amleto, indossavano giacche di pelle come a rimarcarne la ribellione e la contrapposizione agli adulti, alle loro regole a al loro potere. Ma a questi giovani figli delle contestazioni degli anni settanta (periodo in cui al Piccolo di Milano venne messo in scena il Lear di Strelher), rappresentati dal Marlon Brando di turno appena uscito dal film Il Selvaggio (parliamo del figlio di Polonio, Laerte), Corsetti contrappone un Amleto sciatto, quasi in tuta, anonimo, la cui follia è vissuta in solitudine nelle camere di palazzo e attraverso i cellulari; un bamboccione per intenderci. La forma di contestazione o di malessere dei giovani della tragedia shakesperiena viene rappresentata da un telefonino, arma e trappola delle ultime generazioni. Mentre gli adulti, a cominciare dal terribile patrigno e zio di Amleto sono in giacca e cravatta (mise che nell’immaginario collettivo moderno viene associata alla figura dell’imprenditore e dell’affarista). Gertrude invece indossa abiti da vamp, da donna oggetto da sfoggiare e esibire per dare maggior prestigio e enfasi al proprio potere. Le immagini che capeggiano durante la messa in scena del nuovo re di Danimarca sono chiaramente politiche e sottolineano il culto al potere che l’uomo crea nei riguardi della figura di un dittatore, in questo caso il nuovo re di Danimarca, Claudio, l’assassino di suo fratello e nuovo consorte della regina.
Molto bella l’alternanza tra linguaggio di strada e linguaggio politico: in un gigantesco panno di plastica viene scritta la parola morte come per strada nei murales delle metropolitane, scelta in risposta e in contrasto a questa gigantografia fotografica che capeggiava di tanto in tanto nella scenografia del dittatore Claudio. Intelligente e originale l’uso di lastre di specchi deformati in cui Amleto e i vari personaggi della storia si avvicendano in alcune scene, così come l’apparizione del vecchio Re Amleto tenuto a freno da una corda che è quella della morte (che dice ai morti di non poter tornare mai più in vita); molto fascinoso l’uso che il regista fa dell’ombra come nella scena dello spettacolo della compagnia di attori per i regnanti che viene fatto dietro un panno illuminato dove i personaggi si mostrano come ombre dell’inconscio dei protagonisti; bello l’uso dello specchio riflettente in cui Amleto vede se stesso e poi la morte ( a noi sembra un chiaro tributo all’Orfeo di Jean Cocteau).
Uno spettacolo partito debolmente con un Amleto e un Polonio un po’ fiacchi e anche le intonazioni degli altri attori non convincevano del tutto, si riprende lentamente dopo quasi una quarantina di minuti, quando le interpretazioni convincono maggiormente; lo stesso interprete di Amleto darà prova di ottime capacità attoriali così come tutti gli altri interpreti, anche quelli con ruoli minori – evidentemente essendo un’operazione così ambiziosa gli attori in scena dovevano ancora familiarizzare abbastanza col pubblico. Secondo noi lo spettacolo è bello e coraggioso e possiamo capire che proprio per l’arditezza dell’operazione possa non essere apprezzato da tutti. In fondo, però, questo è il bello del teatro e dell’arte, non cercare l’amore di tutti ad ogni costo ma solo di chi ricambia i nostri sentimenti.
Amleto
di William Shakespeare
traduzione di Cesare Garboli
adattamento e regia Giorgio Barberio Corsetti
con (in ordine di apparizione) Fausto Cabra, Francesco Sferrazza Papa, Giovanni Prosperi, Dario Caccuri, Paolo Musio, Diego Giangrasso, Pietro Faiella, Sara Putignano, Mimosa Campironi, Francesca Florio, Adriano Exacoustos, Iacopo Nestori
prima, martedì, venerdì, giovedì 1 dicembre ore 20.00
mercoledì e sabato ore 19.00
domenica, giovedi 17 e 24 novembre ore 17.00
lunedì riposo
durata 2 ore e 40′ comprensivo di intervallo
(17 novembre 2022)
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