L’affascinante “requiem per Pinocchio” del Teatro della Valdoca #vistipervoi

0
807
foto: Simona Dicci Trinity

di E.T. #Vistipervoi

Prima magia. Quando entra Mangiafuoco portando in braccio La Fata Turchina sei appena entrato nel mondo straordinario del Teatro della Valdoca che ti ha accompagnato lì dentro, in quel mondo lì, prendendoti per mano con suoni prima appena udibili, poi un po’ più forti; con archetti per violino che accarezzano percussioni, mentre guardi dall’alto del tuo palco la platea che non è rosso velluto, ma rosso sangue ed è stata trasformata in scena, plasmata dai movimenti degli attori che sono già lì, e non te n’eri nemmeno accorto.

Seconda magia. I canti – Improvvisazioni vocali? Cori d’angeli? Fascinazioni di demoni? Cosa sono? – ti riportano da dove sei venuto, tu che sei umano e troppo spesso nemmeno sai perché, e a quell’eterna lotta tra l’oscurità e la luce, la vita e la morte che sono assolutamente la stessa cosa, perché se non ci fosse morte non potrebbero esserci rigenerazione e nemmeno vita e tu ti scopri a cercare di capire con la testa, unica cosa di te che pensi essere pensante, a cosa sta succedendo lì sotto, la sopra, là attorno, tra quegli strumenti e i computer dei tecnici a vista, poi – perché non è mai troppo tardi – senti che la testa la devi spegnere. Buio.

Terza magia. La scrittura di Mariangela Gualtieri, che è anche la sua voce fisica in questo spettacolo, comincia con il ritmo che le è proprio e che è solo suo; tesse invisibili fili d’empatia tra un palco e l’altro, tra uno spettatore e l’altro, tra uno spazio e l’altro e sei trascinato, sei trasportata, ti piaccia o no, in un universo altro da te che ti racconta di quando eri qualcos’altro e proprio da quel tempo in poi: di quando sei stato quella specie di invisibile essere in un liquido primigenio che ti ha generato nell’umano che nemmeno sai di essere: perché in quanto sapiens, anzi, sapiens-sapiens, sei depositario di ogni conoscenza, saggezza, potere e arroganza, e te ne vanti pure.

E’ con una ardita similitudine con la lumaca, uno schiaffone in faccia, che il racconto cantato dall’anima gualteriana ti riporta a ciò che sei, ma tu – umano sapiens sapiens – chissà se te ne sei accorto.

Pinocchio appare con i suoi scarponi, ma nemmeno ti accorgi che è Pinocchio, chi se ne frega se è Pinocchio; tu ormai sei in un mondo altro dove stai riflettendo su di te, manco te ne accorgi, benedette siano certe Arti e certe Scritture, e ingaggia una furibonda lotta con il Mangiafuoco bellissimo, corpo statuario, poderoso, fauno potente che delinea il cammino verso il Male al quale il nostro Pinocchio si accoda, nascosto (del nostro Male ci vergogniamo sempre, in questa nostra casa stanziale e senza specchi) sotto l’ampia gonna del Mangiafuoco fauno e un po’ demone e lotta, con quella lotta che è la lotta di tutti.

E poi è un racconto di suoni e di movimenti. E’ un’armonia di duetti e un desiderare dal profondo che il testo di Gualtieri vada avanti, e non si taccia mai nemmeno quando accenna alla “sovranissima morte”, tabù misterioso ed intoccabile che una civiltà attaccata a quel nulla che rappresentano i nostri ingombranti beni di possesso [cit.] rimuove, pensando di celebrare una vita che non è una vita, imponendoti ritmi che non sono ritmi, ma schiavitù, e che valuta il passaggio dall’altra parte come una sfortuna inevitabile per chi da questa parte deve starci pro tempore, ma non lo vuole sapere; e sono tanti i concetti e quel loro fluire magnifico; quei respiri profondi che danno il tempo alla Fata Turchina di ripeterli con l’autrice, che è in scena con lei e con gli altri attori.

Non c’è insegnamento alcuno nella Fata Turchina di Gualtieri e Ronconi, ma solo la saggezza di quella parziale illuminazione che solo chi ha scelto la scrittura vive fino in fondo, rivelatrice di tutto quello che non è proprio come lo vediamo e lo pronunciamo. Ed è proprio con “questo suono” di profonda comprensione che lo spettacolo celebra il silenzio (un lungo silenzio che lascia senza fiato) e che accade proprio ora: “mentre la casa brucia”.

Poi un potente Rachmaninov ti porta via, là dove non pensavi nemmeno di andare quando sei entrato e lo spettacolo (80′ di durata che ti sono sembrati durare un sessantesimo di battito di ciglia) si esaurisce con la stessa delicatezza con la quale è iniziato. Tu applaudi per tutti i lunghi minuti che durano gli applausi e che gli attori meritano, il regista Cesare Ronconi merita, che Mariangela Gualtieri merita (anche se una simile scrittura questa civiltà onnivora e sempre più ignorante non se la merita più).

Esci dal teatro e percorri il bellissimo centro storico di Cesena chiedendoti cosa scriverai, dopo che tanto hai sentito e visto, e cosa realmente puoi scrivere di un lavoro nel quale persino i difetti e ciò che ti sembra messo lì per caso, sono invece momenti dei quali non si potrebbe assolutamente fare a meno. Così lavora quell’armonia del tutto che la drammaturgia di “ENIGMA, requiem per Pinocchio”, evoca con la delicatezza della bellezza che è dell’anima, più che del corpo, della cultura, della saggezza della lumaca siderale più che dell’arroganza tecnologica e sub-umana del sapiens-sapiens.

Eravamo al teatro Bonci di Cesena, questo scrivente e il suo congiunto, come da tempi di covid-19 imposto; era il 15 maggio 2021, e ci meravigliavamo di ciò a cui stavamo assistendo mentre cercavamo il senso del visibile e dell’udibile nel momento in cui lo spettacolo raccontava che la vera essenza sta nell’ascoltare ciò che non è udibile e nel leggere ciò che non sta scritto. 

E’ stato anche questo l’affascinante requiem per Pinocchio del Teatro della Valdoca.

 

(16 maggio 2021)

©gaiaitalia.com 2021 – diritti riservati, riproduzione vietata