“Moms!” #Vistipervoi Una riduzione italiana che sa di tradimento

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di Alessandro Paesano  twitter@Ale_Paesano

 

 

 

 

 

Mom’s the Word è una commedia canadese sulla maternità scritta nel 1994 da Linda A. Carson, Jill Daum, Alison Kelly, Robin Nichol, Barbara Pollard and Deborah Williams.
Le sei autrici-attrici hanno portato in scena la commedia per la prima volta al Festival di Vancouver “Women In Wiew”. Da allora la commedia ha conosciuto un successo inarrestabile in Canada, Australia, negli Stati Uniti e anche in Europa.

Mom’s the Word è un testo di rara intelligenza a cominciare dal titolo che si rifà a un’espressione idiomatica, “mum’s the word”, che significa “fare silenzio”, “non dire una cosa”  declinata con il sostantivo mom, “mamma”.

La pièce alterna alcuni monologi a scene di gruppo nelle quali la comicità non si basa sulle situazioni descritte ma sull’ironia e l’autoironia con cui i sei personaggi portano in scena dettagli del ménage madre figlio, e figlia, tra il serio e il faceto.

Mom’s the Word ci mostra l’esperienza materna nel suo concreto realizzarsi, dove il ruolo di madre non esaurisce mai la complessità e lo spessore di queste sei donne: la comicità, talvolta a denti stretti, scaturisce dallo scarto tra le “vite da mamma di una prole neonata”, e le vite come persone di sesso femminile, tra lavoro, amici, sesso, mariti, compagni e compagne.
Nel testo originale Jill racconta alle altre mamme del consiglio che le ha dato la sua ragazza.

La bellezza della pièce sta anche nella volontà di non compilare un elenco di “situazioni tipo” nelle quali “tutte le donne” devono necessariamente riconoscersi, ma di costruire il racconto a partire dalle proprie individuali e soggettive esperienze di maternità.

I personaggi di Mom’s the Word prima di essere madri e mogli sono donne che ridono e soffrono di una vita improvvisamente ristretta e concentrata su uno degli aspetti del loro essere, un orizzonte nel quale sono momentaneamente racchiuse, ma che non rappresenta mai la loro “vera” cifra esistenziale.

In Italia lo spettacolo è arrivato grazie alla verve della compagnia Tacchi Misti, interpretato da Carla Ferraro, Valentina Martino Ghiglia, Laura Mazzi e Silvia Siravo per la regia di Ferdinando Ceriani con il titolo di Moms! il primo varietà sulla maternità.

Diverse le novità dell’edizione italiana.

La partitura sonora presenta canzoni famose – con i testi riscritti intelligentemente per l’occasione da Toni Fornari – nazionali (“Sono una donna non sono una mamma”) e internazionali (“Mamma mia” degli Abba che recita ” Mamma Io? Meglio zia”) divertente e funzionale alla messinscena  (anche se le basi registrate hanno una scarna elementarità da karaoke).

L’impiego delle canzoni attesta lo spettacolo più che nel registro del varietà, come recita il sottotitolo,  in quello del cabaret, complice una regia che cerca una comicità a tutti i costi anche quando l’originale si fa più serio o doloroso.
Per ottenere questo slittamento di registro sono stai apportati numerosi tagli e modifiche.
Via i cenni ai polmoni poco sviluppati nel monologo a più riprese in cui Allison parla di suo figlio Ben ricoverato in ospedale, mentre le lettere che  Linda scrive, cioè declama,  al marito, nelle quali denuncia le mancanze dell’uomo delle sue responsabilità genitoriali  vengono scritte “sdolcinatamente” con una penna enorme su dei fogli a forma di cuore…

I monologhi autonomi dell’originale, che si alternano a scene più strutturate, sono trasformati in un testo unico e continuativo sacrificandone la varietà stilistica a favore di una coerenza, inutile e superficiale, che serve solo a strizzare l’occhio al cliché un po’ trito della donna-mamma, squisitamente italiota. Così nel finale, tutti e quattro i personaggi si dicono disposti a rifare le mamme presentandosi ancora coi pancioni posticci così come sono entrati in scena all’inizio, ben diversamente dalle considerazioni personali e differenziate, che fanno i sei personaggi dell’originale.

Il testo italiano, tradotto da Valentina Martino Ghiglia, è penalizzato da un pervicace impiego del maschile inclusivo che traduce la parola “child”, che in inglese vale anche “bambine”,  sempre e solo “bambini”.  In questo registro lessicale sessista il taglio del dialogo nel quale Jill parla alle altre protagoniste della sua ragazza, nel senso di partner (girlfriend) assume lo spessore dell’omissione.

Anche il registro linguistico è edulcorato, così la merda (shit) del testo originale che ha un significato non scurrile ma concreto e prosaico diventa escremento allusivo al pari di molti altri dettagli fisiologici che vengono derubricati in funzione di una visione della maternità “in rosa” distante anni luce dalla cultura, nel senso di “visione del mondo”, dello spettacolo canadese.

Esemplificativo uno dei monologhi che affrontano il sesso, nel quale Deborah mangia una banana mentre si rivolge al marito dicendogli che anche se lui non lo ha chiesto lei è felice di “fare quello” perché ultimamente non è che stia facendo tanto per lui, che, nella versione italiana, diventa il confronto della protagonista con un’erezione, simbolizzata da una bacchetta magica da prestidigitazione, che perde rigidità perché lei, invece di “fare”, parla…

Quello restituito da Ferdinando Ceriani non è il testo scritto, interpretato e diretto da sei donne che decidono di parlare della propria individuale e soggettiva esperienza di maternità, ma quello di un uomo che, pensando di essere dispensato dal comprendere il “mistero femminino della maternità” in quanto uomo, ne restituisce una visione maschile (maschilista?)  nella quale si rischia di “ridere di” invece che “ridere con”.

Brave le quattro interpreti attente a prendere tutti i tempi comici, insistendo più che altro sulla comicità di situazione trascurando i risvolti drammatici, perdendo così lo spessore di maggior respiro del testo originale in una riduzione italiana che sa di tradimento e continua a essere presentata “per la prima volta in Italia” anche se lo spettacolo è sulla piazza dal 2014.

 

 

(3 febbraio 2017)

 





 

 

 

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