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Teatro Nô a Venezia #Vistipervoi da Emilio Campanella

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sakurama-ujin-00di Emilio Campanella

 

 

 

 

 

 

 

 

Domenica 18 Settembre, alle ore 20, il Teatro Goldoni di Venezia ha ospitato uno spettacolo di Teatro Nô giapponese, rara occasione: l’ultima rappresentazione di questo stile tradizionale, in città, si era dato nel 1996 al Palafenice, il tendone dell’isola del tronchetto che sostituiva, sino alla sua ricostruzione, il bruciato Gran Teatro La Fenice. Come allora, anche in questa occasione l’Università di Ca’ Foscari ed il Professor Bonaventura Ruperti (anche autore di un testo del programma di sala), hanno seguito la manifestazione. L’occasione è data dal centocinquantenario del Trattato di Amicizia e Commercio fra Italia e Giappone. La data è il 1866, due anni prima della Restaurazione Meiji del 1868. La Compagnia guidata dal Maestro Sakurama Ujin ha iniziato la sua tournée al teatro Argentina di Roma (14 Settembre), successivamente al Teatro La Pergola di Firenze (16 Settembre), e dopo Venezia, il 20 Settembre, saranno al Teatro Olimpico di Vicenza, ultima data in Italia.

La compagnia è composta da discendenti da famiglie di antica tradizione nella loro disciplina: danzatori, attori, strumentisti, cantanti. I programmi sono diversificati da città a città, e proprio a Vicenza il programma prevede un moderno ispirato al viaggio di quattro giovani giapponesi, dell’epoca Tensho (XVI sec.) in varie città italiane, in rappresentanza dei loro Daimyo cristiani.

La serata veneziana si componeva di due parti introdotte da un’ampia, esauriente prolusione di Bando Mariko, che contestualizzava epoche, stili letterari, eventi storici, nascita di un teatro elitario, quale il , e la personalità del suo autore: Zeami Motokiyo, creatore di una forma di rappresentazione che prese le mosse da precedenti danze di corte, e autore di moltissimi testi, fra cui quello rappresentato. La scena astratta nell’astrazione, appunto, era costituita da una immagine fotografica da un paravento giapponese, ovviamente, presente nelle collezioni del Museo di Arte Orientale, ospitato all’ultimo piano di Ca’ Pesaro. Sul palcoscenico uno stretto rettangolo sulla sinistra dello spettatore, che portava ad un ampio spazio quadrangolare, entrambi bianchi sul piano nero della scena; dunque non i tre pini sul “ponte”, non la scena sollevata da una pedana e delimitata da codificate balaustre, non la scala sul davanti. Una richiesta di maggiore concentrazione fatta al pubblico, peraltro attentissimo, se si esclude un’unica defezione nella seconda parte. La serata si è aperta con un lungo racconto relativo alle vicende della guerra fra i clan Taira e Minamoto in epoca Heian, desunto dall’Heike Monogatari (circa 1221): Chikubushima Moude, interpretato con grande intensità da Suda Seishu cantore ed esecutore al Biwa, strumento al centro della narrazione, come della pièce successiva. Dopo l’intervallo: Tsunemasa, interpretato da Sakurama Ujin (Shite- protagonista), Tateda Yoshihiro ( Waki-deuteragonista), Kamei Hirotada, Ko Masayoshi, Fujita Jiro, musicisti. Emoziona sempre in queste rappresentazioni brevi ed estremamente ritualizzate, precise, codificate, come egualmente cresca la carica ed il coinvolgimento del pubblico, nel dramma, da quando i musicisti con gesti, movimenti precisi, prendono posto. I suoni secchi, le voci dal canto aspro, spezzato, all’entrata del Waki che introduce la cornice del dramma, sino all’ingresso lentissimo dello Shite, dal costume ancora più sontuoso. La maschera ne rende particolarmente sonora la voce, esterna la sua tragedia di samurai morto in battaglia, attirato dal biwa portato dal Waki, ed a lui appartenuta. Strumento sacro e forse possibile agente di una agognata liberazione dalla sua infernale condizione di condannato a combattere indefinitamente i demoni. Un fantasma, che noi vediamo benissimo, ma che il coro ed il deuteragonista, intravvedono come una nebbia vaga. Il racconto della tragedia interiore, i movimenti precisissimi, quella capacità di ruotare sull’asse, i cambiamenti di direzione veloci, gli scatti repentini, i passi scivolati, il battere furioso dei talloni, l’espressivo movimento del ventaglio sino all’uscita di scena rapida e silenziosa… Si vorrebbe che non finisse mai!

 

 

 

 

(21 settembre 2016)

 

 

 

 

 

 

 

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