di E.T. twitter@iiiiiTiiiii
Va premesso che chi scrive ha avuto un’esperienza diretta assai forte del tema che lo spettacolo “I won’t eat” ha messo in scena lo scorso 21 maggio all’interno di Nops Festival, l’intelligente manifestazione che Nogu Teatro mette in scena a Roma da quattro edizioni e che ha ospitato lo spettacolo di Elisa Denti. Scuseranno il loro cronista, i nostri lettori, se l’emozione a volte potrà prendere il posto dell’oggettività. Siamo umani.
Il tema dell’anoressia è un tema “scomodo”, non fatto per i grandi spazi teatrali, quelli che sono gestiti dagli pseudo-intellettuali che organizzano manifestazioni che devono cambiare il mondo e poi, incapaci di gestirle, danno la colpa al Commissario Tronca messo dove sta – secondo loro – con mere funzioni di “controllo” sulla città. Dispiace per questi intellettuali della rivoluzione radical-chic del “vieni a vedere il mio nuovo bagno”, che la loro inutilità intellettuale e presenza presunta sulla scena teatrale concentrata solo sul loro ombelico, gli faccia perdere l’opportunità di inserire nella bambinesca programmazione di manifestazioni tanto strombazzate quanto ininfluenti, uno spettacolo come “I won’t eat”.
La scena si apre con l’attrice seduta a terra. Unica compagna una mela. Rossa come la passione. Quella per la morte. Perché di “cibo si può morire”. Ed è un’immagine di grande speranza quella che Elisa Denti sceglie per cominciare il suo racconto: si riunisce con la sua ombra proiettata sullo sfondo, se ne impossessa di nuovo, in un momento di straordinario valore simbolico. Come raccontare l’anoressia? Distruggendone con ironia feroce i luoghi comuni. Utilizzando l’empatia e la comprensione profonda dell’esperienza anoressica per dare voce ai dolori di tutti uscendo dal proprio ego senza percorrere la via del “sentirsi buoni” perché si sta in scena per dare voce a chi soffre (“J’aime faire du cinema pour les pouvres…” mi disse una volta il regista francese Sebastién Lifshitz parlando del suo cinema. Si era a Genova e si stava ospitando una sua retrospettiva. La frase mi procurò una certa allergia al tema del “sentirsi buoni”, mettiamola così), si distrugge il luogo comune sul distrubro anoressico, quello che si trova al prezzo di una connessione su troppi siti internet.
Scenicamente lo spettacolo è molto povero ed abbiamo già ascoltato critiche alla sua mancanza di “esteticità”: l’autrice, attrice e regista non aveva altra scelta che metterlo in scena così. Con la sola voce della sofferenza e dell’esperienza è lì a dare vita e contorno alla storia del personaggio che si racconta, della madre che si racconta (bravissima l’attrice che calza un paio di tacchi e diventa un’altra persona), del cibo che si racconta, dell’eterna lotta tra la vita e la morte (quella che sta dentro di noi) che si racconta, con alcuni accorgimenti scenici efficacissimi e con un paio di stuazione non ben risolte nella parte centrale dello spettacolo.
Elisa Denti ha messo in scena uno spettacolo di rara verità scegliendola, quella verità, a discapito degli artifici teatrali che – purtroppo per i testi e gli autori – anche a Nops abbiamo visto; senza l’ossessionante e stantìa ricerca della frase ad effetto completamente disconnessa dalla drammaturgia perché si pensa sempre di essere su Facebook e si scrive per avere un like e non per “raccontare”.
“I won’t eat” è uno spettacolo, finalmente, che mette in primo piano “l’umanità”, quella che perdiamo lungo la strada perché non sappiamo neanche noi perché e poi diamo la colpa agli altri. Al governo, al vicino o al commissario Tronca. Elisa Denti ci costringe, qualora ne avessimo voglia, ad interrogarci sul mondo che abbiamo costruito.
Come? Non siamo stati noi, è colpa della società? E la società da chi è composta, I beg you pardon?
Per chi scrive lo spettacolo è bellissimo. Ed emotivamente indimenticabile. Andatevelo a cercare ed applauditelo. Vi arriverà come un calcio nei denti, ma vale la pena riceverlo quel calcio.
(22 maggio 2016)
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