di Andrea Mauri
Una grande scatola bianca che accoglie al centro una pedana scura sopraelevata, è la suggestiva scenografia dello spettacolo Il rito di Ingmar Bergman, visto al Teatro Vascello di Roma. Dentro la scatola si muovono i quattro protagonisti, tre attori anch’essi vestiti di bianco e il giudice nel suo studio sospeso e nero, intento a dare un senso al suo ruolo di censore.
Il rito è tratto dal film omonimo di Ingmar Bergman del 1969. Narra di tre artisti di varietà, i coniugi Winkelmann, Hans (Antonio Zavatteri) e Thea (Alice Arcuri), e Sebastian Fischer (Giampiero Judica), amante della donna. I tre sono denunciati per l’oscenità presunta di un numero del loro ultimo spettacolo. Il giudice Ernst Abrahmsson (Alfonso Postiglione, anche regista dello spettacolo) li interroga per decretarne l’eventuale condanna.
Il pubblico segue da vicino questi interrogatori, dapprima per mezzo di un approccio mite, quasi adulatorio del giudice per tre attori molto famosi; via via invece che gli incontri si moltiplicano, l’atteggiamento del giudice si fa molto più aggressivo.
Attraverso giochi di luce tra il bianco e nero della scenografia (un richiamo al bianco e nero del film di Bergman, l’ultimo girato con questa tecnica prima di passare al colore), i personaggi svelano la loro vera natura.
Gli interrogatori sono l’occasione per liberarsi del lato oscuro della personalità, quando i tre attori, convocati insieme o singolarmente, nell’oscurità dell’ufficio del giudice non trattengono il desiderio di dare libero sfogo a pensieri troppe volte lasciati marcire nella maschera di vite fasulle, recitate sul palcoscenico. E non sono solo gli attori a svelarsi. Il giudice stesso, protetto nella nicchia nera del suo ufficio e dal ruolo istituzionale che ricopre a difesa di una presunta integrità, si lascia andare a deliri di solitudine e di altre basse infamità, suggeritegli dalla posizione di potere che crede di esercitare.
Gli artisti nella vita privata, recitata nella zona bianca della scatola scenica, continuano a interpretare le parti di un’esistenza a cui non credono fino in fondo. Si scambiano solidarietà sull’attacco della censura e si scontrano sulla misera evidenza di esseri subordinati a un meccanismo mille volte più potente di loro.
Sul palco assistiamo a questo continuo scambio di ruoli, reso però a volte con troppa verbosità e un certo sottofondo aulico nell’interpretazione con il risultato di un inevitabile appiattimento della narrazione in alcuni punti dello spettacolo.
La forza della rappresentazione per fortuna riprende nei punti chiave della trama. Le relazioni affilate dei personaggi procedono con ritmo incalzante nel passaggio tra gli spazi bianchi e neri della scena, gli interrogatori diventano frequenti, il giudice non riesce a capire fino in fondo dove sta la natura perversa dello spettacolo sul quale pronunciarsi. Così decide di mettere in scena nel suo studio la parte incriminata, scelta folle perché avrà delle conseguenze fatali.
Nell’ultima parte della pièce la relazione tra cittadini e giustizia è ormai malata. La stessa scena nello studio del giudice assume le forme di un rito dionisiaco, il rito appunto, che Ingmar Bergman voleva raccontarci, anch’egli vittima della censura durante la sua carriera artistica. La forza del teatro, del cinema, di ogni espressione d’arte sta proprio nella resistenza a qualsiasi forma violenta; i tentativi di censura per loro stessa natura sono costretti a soccombere. Peccato per la chiusura troppo affrettata in un momento di alta tensione, mentre la riflessione suggerita è che non dobbiamo smettere di raccontarci, di esibirci sfacciatamente, consegnando le nostre colpe al mondo, foss’anche nell’estrema conseguenza di perdere la vita.
IL RITO di Ingmar Bergman
traduzione di Gianluca Iumiento
con
Alice Arcuri (Thea Winkelmann)
Giampiero Judica (Sebastian Fischer)
Alfonso Postiglione (Giudice Ernst Abrahmsson)
Antonio Zavatteri (Hans Winkelmann)
adattamento e regia Alfonso Postiglione
(27 gennaio 2025)
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