di Alessandro Paesano
Mentre il pubblico prende posto in platea il palco è occupato da alcune sedie, poste su più file, tutte vuote, mentre un vocio indistinto permea l’aria. Così al chiacchiericcio registrato si sovrappone quello spontaneo del pubblico che ignora la messinscena già all’opera.
Poi, all’improvviso le luci in platea si spengono e il chiacchiericcio registrato s’interrompe, subitaneamente. Così quello in platea.
Si fa avanti un giovane uomo, vestito con un completo marrone che gli sta leggermente grande e cravatta, dal passo nervoso, ha con se una ventiquattrore di cuoio, calza un paio di occhiali pince nez, compito nel modo di porsi. Poggia la borsa su una delle sedie vuote e inizia a rivolgersi al pubblico proponendo una analisi della sconfitta dello sciopero di 200mila operai ferocemente represso dalle forze dell’ordine a cominciare della domanda Dove abbiamo sbagliato? Propone una analisi puntuale sullo strumento politico dello sciopero che non è mai espressione di forza ma di coscienza di classe.
Man mano che l’uomo prosegue nella sua analisi, additando le responsabilità della sinistra italiana, incapace di sostenere e di far emancipare la classe operaia, riconosciamo nel suo pensiero e nelle sue parole, il patrimonio culturale del più importante esponente del comunismo italiano, Antonio Gramsci, anche se lui non si è presentato perchè la gravità della situazione impone di evitare i consueti convenevoli.
Mentre procede con l’analisi il conferenziere sposta il tema del suo parlare dall’analisi del fallimento dello sciopero agli strumenti tramite i quali agire dopo la sconfitta.
Ed ecco che si fa demiurgo, pedagogo.
Pone domande alle persone cui si rivolge e il pubblico, quello del Teatro Basilica, gli risponde.
Affronta la distinzione tra struttura e superstruttura (come la chiamava Gramsci) tramite una metafora azzeccatissima: la struttura (economica) è come lo scheletro dell’essere umano mentre la superstruttura (la cultura in senso antropologico) sono gli organi interni e la pelle dell’essere umano.
In un discorso denso, privo di artifici retorici, affronta la figura dell’intellettuale che per Gramsci aveva un significato diverso da quello che intendiamo noi oggi e che si intendeva anche 100 anni fa. Intellettuale è chi emancipa prima di tutto sé, chi sa non perchè ha la mente piena di nozioni ma perchè conosce il suo posto nel mondo, cambiando molecolarmente sé prima di cambiare la società.
Se migliorano le condizioni economiche ma si rimane nella stessa cultura si resta proletari, inferiori e schiavi, anche se meglio remunerati.
Senza l’autodeterminazione (il conferenziere racconta anche la storia dell’uomo caduto nel fosso che per liberarsi non può che contare su se stesso perchè dalla classe docente, da quella artistica e da quella politica raccoglie solamente parole) si rimane immobili come fa il popolo nei Promessi Sposi di Manzoni che aspetta sia la Provvidenza a risolvere i suoi problemi.
Poi nel pieno di questa analisi il nostro ci dice che non ha più nulla da dire e se ne va.
Torna il chiacchiericcio di prima mentre un assistente di scena appende a un muro di quinta la foto del Presidente della repubblica Mattarella (quale modo migliore di sottolineare che sono passati 100 anni?) modifica la disposizione delle sedie, ponendole accatastate una sull’altra e lasciandone sedibile solamente una quand’ecco che dalla platea un giovane con bomber e jeans strappati, seduto in platea conversa con gli altri presenti al commissariato dove è stato condotto, cioè con il pubblico.
Nino, così dice di chiamarsi, parla di canne, meglio farsele a Milano dove ha lavorato per sei mesi come cameriere ma il contratto non gli è stato rinnovato in favore di qualcuno che è meno tutelato di lui: un migrante nero (non proprio l’aggettivo che usa).
Intanto una voce lo chiama è il commissario, che sentiamo senza vedere, che lo informa del reato commesso: atto vandalico contro un murales che raffigura Gramsci, scrivendoci sopra la parola “gay”.
Il ragazzo ignora chi sia Gramsci e quando scopre che è un politico chiede di poterlo chiamare per chiedergli cosa. Si compiace di sapere che il politico sia morto, meglio ancora se era comunista. Quando il commissario gli chiede il perchè della scritta il ragazzo si schernisce dicendo che non aveva niente da fare e ha usato l’insulto per antonomasia. Poi il Commissario gli chiede se vuole essere intervistato da un giornalista del Corsera che sta facendo un reportage sulla disoccupazione giovanile e anche lui gli chiede il perchè di quell’insulto che a Nino pare una domanda sempre più oziosa.
Poi giunge anche la madre che prima gli dice che è una delusione e poi lo accusa di essere come il padre. A Nino, che ricorda alla madre che almeno lui non l’ha mai picchiata, sanguina il naso proprio come aveva raccontato gli era successo una sera che metteva a posto i tavoli quando faceva il cameriere a Milano.
Il commissario lo informa intanto che non verrà sporta denuncia visto che il murales è stato ripulito e Nino può tornare a casa
Gramsci Gay, al netto di un titolo non proprio felice (forse avrebbe aiutato un virgolettato all’aggettivo), si impone come uno dei migliori spettacoli cui abbiamo assistito negli ultimi anni per il bel testo di Iacopo Gardelli, la splendida regia di Matteo Gatta e la magnifica interpretazione di Mauro Lamantia che non vediamo l’ora di rivendere in scena.
Il testo restituisce il pensiero di Gramsci con grande precisione rimanendo squisitamente teatrale. L’occasione del comizio-conferenza dove un gruppo di compagni si riunisce per fare un’analisi politica dello sciopero sconfitto – lo sciopero delle lancette avvenuto nell’aprile del 1920 quando la classe operaia del torinese protestò assieme alla classe contadina per l’introduzione governativa dell’ora legale, repressa con ferocia anche grazie al mancato sostegno del Partito Socialista Italiano e della Confederazione generale dei lavoratori (Cgl) – è un’occasione perfetta per proporre un regesto del pensiero gramsciano, la cui forza pedagogia travalica quella storica e si trasforma in una grande pagina di teatro.
C’è un che di squisitamente gramsciano nella scrittura, nella messinscena e anche nella recitazione.
Quando Gramsci pone delle domande al suo pubblico ipotetico il pubblico del teatro risponde a Lamantia, in un gioco tra testo e contesto che esemplifica i legami tra struttura e sovrastruttura, tra Storia e contemporaneità, mostrando le affinità tra le riunioni nei partiti – che una volta avevano una componente popolare (aggettivo che si riferisce tanto alla classe quando ai numeri di una partecipazione sentita e diffusa) – e il teatro come rito collettivo.
Basta poco per cancellare la quarta parete del teatro borghese per far dialogare pubblico concreto e interprete proprio come dialogano Personaggio e il suo pubblico di finzione.
La seconda parte del testo che tratteggia la vita del sottoproletario Nino, pur essendo nella sua narrazione una invenzione, si rifà a un fatto davvero accaduto.
Nel 2019 a Turi, la città in provincia di Bari, è stato vandalizzato un murales in memoria di Antonio Gramsci, che proprio lì scontò parte della pena carceraria voluta da Mussolini, imbrattato dalla scritta “gay”.
L’ipotesi di Iacopo Gardelli, autore del testo, che ha vinto il Premio Anna Pancirolli 2022 per il migliore spettacolo inedito under 35, è che l’omofobia della scritta che ha vandalizzato il murales non è rivolta contro una classe di persone, quelle veramente omosessuali, perchè la parola gay è un insulto universale per tutti i maschi (l’insulto per le donne è notoriamente un altro) fatto per noia, superficialità, inedia.
Certamente non per questo meno omofobo ma all’indifferenza da sottoproletario e da disoccupato di Nino che si vanta di non votare fa da contraltare l’indifferenza quella delle classi superiori, quella del commissario e quella del giornalista, entrambi al servizio dei padroni, privi entrambi di un progetto culturale che non sia quel bignamino striminzito di domande sempre uguali che gli (e le) intellettuali del giornalismo italiano propalano senza alcun quoziente critico, dimostrando quel che Gramsci, quello visto in scena, aveva appena detto: se non cambia la cultura si continua ad appartenere a una classe sociale sottomessa.
La regia di Matteo Gatta sa sfruttare i pochi elementi di scena con una grande abilità drammaturgica: l’allestimento delle sedie a vista, davanti al pubblico tra la prima e la Seconda parte; il piccolo ma fondamentale dettaglio della foto illuminata con una luce sagomata, di Mattarella; le voci amplificate dal microfono del commissario del giornalista e della madre di Nino, incorporee, spersonalizzate, tutte a indicare la funzione sociale, politica, capitalistica, ma prive di una vera individualità. Infine la magistrale capacità di saper dirigere Lamantia, determinandone prossemica, qualità e forza della voce, dell’accento, per restituire Gramsci e Nino, che, se non fosse per la somiglianza del viso, si direbbero due attori diversi: alla compostezza di Gramsci, anche quando si siede in punta di sedia si oppone la scompostezza di Nino e il suo continuo toccarsi le parti intime.
Lamantia ci regala due personaggi veri, vivi, dando loro un’energia e un’umanità molto diverse ma ugualmente forti e vivide.
Sta al pubblico chiedersi in cosa continuiamo a sbagliare, senza che il testo fornisca impossibili soluzioni, presentando solamente l’urgenza assordante di una domanda alla quale non possiamo più esimerci dal rispondere, collettivamente e individualmente, proprio come fosse Gramsci stesso a chiedercelo.
Uno spettacolo bellissimo al quale auguriamo una lunga vita e una lunghissima tourneè che tocchi anche le nostre scuole.
GRAMSCI GAY
Uno spettacolo di
Interpretato da
Drammaturgia di
Regia di
Una produzione /
Tecnica e voce di
Costumi e scene di
Visto per voi al teatro Basilica di Roma il 9 gennaio 2025.
(12 gennaio 2025)
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