di Alessandro Paesano
Io mi chiamo G è il monologo di apertura de Il signor G il primo spettacolo di teatro-canzone che Giorgio Gaber porta in scena nel 1970. Nel monologo, G, personaggio borghese e ricchissimo, si confronta con un altro G (interpretato sempre da Gaber), proletario e male in arnese. Nel confronto tra i due personaggi scaturisce una certa comicità ma nel sottotesto c’è una critica alla borghesia e alla sperequazione economica.
Teatro canzone è un’espressione coniata da Sandro Luporini che firma con Gaber undici spettacoli nell’arco di un trentennio da Il signor G a Un’idiozia conquista a fatica.
Il teatro canzone indica uno spettacolo teatrale nel quale monologhi recitati si alternano a canzoni che affrontano la condizione del mondo contemporaneo visto e analizzato dal punto di vista politico di Gaber, dove politico significa vita nella città cioè responsabilità etica e non mero schieramento partitico.
Da solo in scena, Gaber propone situazioni, personaggi e contesti con una prosa di evocazione come l’hanno definita Gaber e Luporini.
Il titolo scelto per questo omaggio a Gaber, nel ventennale della sua scomparsa, non poteva essere più felice.
Lo spettacolo si apre con il monologo che gli dà il titolo, interpretato da Maria Teresa Pintus e da Marco Zangardi (laddove quello originale era interpretato dallo stesso Gaber) sulla falsariga della versione televisiva che ne diedero Gaber e Mina (però monco del finale…).
Dopo questo primo monologo insieme, Pintus e Zangardi si dividono le parti, lei canta, magnificamente, le canzoni mentre lui si cimenta coi monologhi, con qualche inversione di ruolo: Zangardi canta Lo Shampo (improvvisando con disinvoltura la melodia) mentre Pintus si cimenta in qualche piccolo momento di prosa.
Le canzoni sono suonate dal vivo da Andrea Moriconi, che, oltre a firmare gli arrangiamenti, suona la chitarra, da Fabio Landi, che suona il basso e da Valerio Cosmai, che suona batteria e percussioni.
Dal versante musicale lo spettacolo funziona e offre due ore di ottima musica, la selezione dei brani e dei monologhi proposti e anche gli interventi di editing portati al materiale originale non convincono invece fino in fondo.
La divisione rigida dei ruoli, Zangardi alle parti di prosa, Pintus a quelle musicali, porta involontariamente a una polarizzazione musica – parola, che si illumina in tralice delle caratterizzazioni di genere dell’uomo e della donna, secondo gli stereotipi che vogliono la donna più sensibile e dunque più artistica e musicale e l’uomo più logico e amante del logos e dunque della prosa.
Questa impressione è corroborata dal La sedia da spostare, il secondo monologo che Pintus e Zangardi recitano insieme.
Nella versione di Gaber, che interpreta entrambi i personaggi che (s)ragionano su come spostare la sedia, emerge una denuncia dell’immobilismo politico della destra e della sinistra italiane dell’epoca (siamo nel 1994). Il monologo portato in scena da Pintus e Zangardi assume invece i toni della schermaglia uomo donna su un tema futile, vanificando tutto il portato critico politico dell’originale.
Tutta la selezione dei brani e dei monologhi privilegiano un Gaber più intimo e concentrato sui rapporti interpersonali, a discapito del discorso squisitamente politico del suo teatro canzone.
Come non ricordare brani come Qualcuno era comunista, o Io se fossi Dio, o il profetico 1981, non portati in scena forse perchè considerati scomodi (ma non vogliamo improvvisare delle motivazioni, che ignoriamo)? Se abbiamo almeno un po’ di ragione si capisce anche il perchè della cancellazione dai recitativi de Lo Shampo dei riferimenti alla santa messa.
Anche a voler proporre un repertorio meno scomodo c’erano dei brani dove il racconto pur rimanendo nel privato non affronta le relazioni sessual-sentimentali uomo donna, ma i rapporti di classe, o la memoria storica, da L’odore a Destra/Sinistra e Io non mi sento italiano che avrebbero restituito con più rappresentatività il repertorio proposto nello spettacolo.
Invece si è preferito un brano come I mostri che abbiamo dentro, che è una canzone più assolutoria che di denuncia.
Anche quando lo spettacolo affronta brani politici come La libertà, l’approccio interpretativo insiste sull’espetto solidale e meno sull’imperativo etico (e dunque politico) all’impegno come è nell’originale (la parola usata da Gaber è partecipazione).
Si badi bene il nostro non è un giudizio di gusto (mancano le canzoni più belle) ma politico, senza nulla togliere alla ottima musica suonata e cantata, e pur dando atto delle migliori intenzioni, la scelta del repertorio proposto rischia di fuorviare chi non ricorda o non conosce bene Gaber inducendo a pensare che il teatro canzone sia quello portato in scena quando mancano tanti aspetti che ci saremmo aspettati di vedere e ascoltare in un doveroso omaggio necessario e indispensabile, all’arte di Gaber, come recita il programma di sala.
Visto per voi il 22 luglio 2023.
A.C. Genta Rosselli ETS presenta
IO MI CHIAMO G.
di Giorgio Gaber e Sandro Luporini
Adattamento Marco Zangardi e Marco Belocchi
Regia Marco Belocchi
Direzione musicale e arrangiamenti Andrea Moriconi
Con Marco Zangardi e Maria Teresa Pintus
Musicisti Andrea Moriconi chitarra, Fabio Landi basso, Valerio Cosmai, batteria
Costumi e grafica Maria Letizia Avato Luci e Fonica Mauro Buoninfante
(25 luglio 2023)
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