di Alessandro Paesano #Vistipervoi twitter@Ale_paesano #Teatro
Quando andò in scena per la prima volta, il 3 novembre del 1965, Saved (Salvato) di Edward Bond divise pubblico e critica per la scena in cui un neonato viene ucciso nella carrozzina a colpi di pietra dal giovanissimo presunto padre e dai suoi amici teppisti.
Da allora Saved non ha smesso di muovere le nostre coscienze perché costituisce un grido di denuncia lucido e tagliente il cui eco ancora ci assorda.
Scritto con una lingua fedele allo slang del sottoproletariato di allora Saved non è costruito su di un facile naturalismo, Bond usa quel linguaggio come esempio di lingua impoverita, che ha perso ogni funzione comunicativa.
I personaggi di Saved sono incapaci ad esprimere il proprio sentire in un discorso relazionale, per loro le parole servono solamente a tenere a distanza le altre persone.
Tommaso Spinelli, che ha tradotto il testo per la messinscena di Gianluca Merolli, in prima assoluta al Vascello di Roma dal 29 novembre fino al 10 dicembre, ignora l’inglese gergale del sottoproletariato dell’originale usando intelligentemente per la traduzione un italiano discorsivo restituendo la violenza di una lingua incapace di comunicare per sottrazione: al posto di una gergalità spinta – che all’epoca mise in crisi più di un critico prezzolato incapace di capirla – i personaggi parlano un italiano neutro, privo di qualunque stile personale, non radicato in alcun idioletto, quell’italiano che, ci ricordava Tullio De Mauro, abbiamo imparato dai telegiornali.
Gianluca Merolli, che oltre a firmare la regia interpreta Len, il protagonista silenzioso della pièce, approccia il testo con grande intelligenza rinunciando a qualsiasi tentazione naturalistica.
Nessun giovanilismo degli interpreti, nessun eccesso, che stabilisce le norme e chi le infrange.
Merolli ci tiene che il pubblico non giudichi i suoi personaggi al punto da farglieli incontrare prima ancora dell’inizio dello spettacolo: nel foyer del teatro infatti, quelli che capiremo essere gli amici di Fred, il padre infanticida, cantano, suonano la chitarra, ridono, si esibiscono per qualche centesimo al pubblico di passanti.
I personaggi di Bond, ci dice Merolli, non sono dei mostri alle spese dei quali rassicurarci nella nostra normalità: la responsabilità di queste vite abbandonate è di ognuna e ognuno di noi che assistiamo inermi a questo sfacelo.
Merolli lascia parlare tutti i dettagli di un testo che non viene urlato o portato al parossismo ma è restituito con una calma glaciale che assorda più di qualsiasi fragorosa grida mentre ci mostra come la violenza della pièce non è solo quella dell’infanticidio (che comunque possiede una enorme potenza disturbante) ma è presente in tutte le altre situazioni delle altre scene.
Una violenza che si consuma tutte le volte in cui personaggi maschili sopraffanno quelli femminili, tutte quelle in cui i personaggi femminili si auto-sviliscono donandosi al maschio di turno (Pam all’inizio con Len e poi con Fred anche dopo che questi ha ucciso loro figlio), ancora nei continui silenzi tra la madre e il padre di Pam e nella mancanza di rispetto di Pam per i suoi genitori. Anche gli scherzi virili tra gli amici di Fred sono il disperato tentativo di chi non ha altro che il maschilismo per sperare di essere visto ed essere preso in considerazione come individuo.
Alle declinazioni di violenza fisica si aggiunge quella di una società assente e vuota per la quale Merolli sceglie un correlativo oggettivo nelle scenografie (magnifiche) di Paola Castrignanò.
La scena, su ruote, dunque spostabile, riproduce in scala reale il soggiorno e la cucina dell’appartamento di Pam, la madre dell’infante ucciso, che vive a casa dei propri genitori.
L’appartamento manca della quarta parete, risultando così aperto a favore del pubblico di modo che la cucina e il soggiorno permettono ai personaggi di stare in due stanze comunicanti ma occultate alla vista l’una all’altra, mentre si offrono alla platea in una vista d’insieme.
Così nella prima scena, quando Pam porta a casa Len per farci sesso, la presenza del padre della ragazza in cucina, che per i due personaggi è solo percepita, per il pubblico in sala ha una concretezza visiva.
Girata di 180 gradi la stessa scena viene usata come esterno (e la grande finestra sulla parete di fondo permette di fare interagire i personaggi all’interno della casa con quelli all’esterno).
Una terza stanza al primo piano si sovrappone da dietro, in alto, alle due stanze del piano terra, innalzata su di una struttura occultata dal resto della scenografia. La stanza, girata sull’altro lato costituirà l’esterno di un bar dove si ritrovano gli amici di Fred dopo che il ragazzo è uscito dal carcere per l’infanticidio.
I personaggi si muovono all’interno delle scenografie (altrimenti evocate con una semplice luce, come quella striata dalle grate della cella in cui Fred viene rinchiuso) anche quando queste sono in movimento, contribuendo a farle apparire come pezzi smontabili di una casa di bambole (anche la cucina e il soggiorno si separano) nell’immensità del palcoscenico altrimenti vuoto del teatro Vascello con un effetto di grande potenza emotiva ed evocativa tra un dentro piccolo e claustrofobico e un fuori indifferente e vuoto.
Le scenografie costituiscono la cornice ideale dentro la quale si muovono tutti i personaggi che Merolli vuole con una forte caratterizzazione fisica.
A cominciare dal suo Len, la cui avvenenza fisica (che induce Pam a portarlo a casa nell’incipit) rimane sommessa e sottotono, sviluppando il personaggio, in linea con il testo, più nella sua ostinazione a restare nelle situazioni che per le azioni che compie. Lucia Lavia incarna la sfrontatezza di Pam con una fisicità la cui spontaneità restituisce magnificamente la fragilità del personaggio che interpreta.
Marco Rossetti è un Fred semplice e senza sovrastrutture disarmante nell’ignavia del suo comportamento infanticida.
Francesco Biscione ci restituisce un padre di Pam esausto anche nei movimenti, imbolsito dagli anni di un matrimonio interminabile e di un lavoro sfibrante, mentre Manuela Kustermann, in stato di grazia, è credibile in ogni momento del suo personaggio, quando è la nonna che si prende cura controvoglia del nipote neonato e quando si lascia convincere da Len a sedurlo.
Bravi e brava, anche Michele Costabile, Marco Rizzo, Giovanni Serratore, Antonio Bandiera e
Carolina Cametti, che, ben guidati da Merolli, sanno restituire i loro personaggi senza alcuna affettazione, senza cliché, risultando magnificamente veri.
Dovrebbero solamente curare di più l’emissione vocale che, soprattutto nei momenti concitati, tende in parte a rendere poco distinti i loro dialoghi.
La macchina scenica e quella attoriale sono al servizio di una regia intelligentemente sobria che non ha bisogno dell’iperbole per mostrare la durezza in cui vivono i personaggi della pièce, una durezza solo ogni tanto smussata da dei momenti indimenticabili (Len che si immagina Liz pettinarsi i capelli; la nevicata del finale che sarebbe piaciuta ad Alain Resnais) che danno ancora più prospettiva all’ingiustizia sociale che la pièce denuncia ancora oggi (figuriamoci 50 anni fa) il cui aspetto collettivo prevale sulle responsabilità individuali che il testo di Bond sottace.
Una regia che non si compiace dello sfacelo sociale che la pièce denuncia non perdendo mai di vista la speranza che il cambiamento sia ancora possibile, una speranza incarnata da Len quando rimane fedele al suo amore per Pam, al di là di qualunque romanticismo (Len andrà a letto con la madre di Pam quando lei sta con Fred) che vuole prendersi cura dell’infante (anche se rimane impassibile a guardarne la lapidazione) e che è testimone coi suoi occhi di uno sbandamento che nasce dalla solitudine e dell’abbandono.
Giunto alla sua quinta regia, Gianluca Merolli conferma le sue doti di attore e di regista, i suoi spettacoli istallandosi nel cuore del pubblico da dove continuano a mormorare anche a parecchi giorni di distanza dalla visione. E scusate se è poco.
(10 dicembre 2017)
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