di Alessandro Paesano twitter@Ale_Paesano
Non mi vestivano mai di rosa vuole ragionare sulla pressione sociale ed esistenziale degli stereotipi di genere e lo fa partendo da una cornice narrativa fantastica: all’interno di un utero quattro embrioni ancora sessualmente indifferenziati, in attesa che un gene stabilisca la natura dei loro gameti, devono affrontare degli esercizi di simulazione Dei rapporti tra uomo e donna, in preparazione del loro futuro.
Ne nascono così diversi esercizi, impartiti da una voce senza corpo che ne scandisce la progressione.
Questi esercizi però non vanno al di là della timida rivisitazione di alcuni degli stereotipi più triti delle relazioni tra uomo e donna senza metterli in discussione ma usandoli direttamente come strumento comico finendo così per confermarli tutti.
Si attesta l’impossibilità dell’amicizia tra i due sessi perché il maschio non può non eccitarsi fisicamente se dorme in campeggio con una amica; si mostra l’illogicità un poco isterica delle donne che rivaleggiano tra di loro (due donne incinta gareggiano sulle presunte qualità della prole in arrivo). Ancora, quando un personaggio maschile, chiede alla sua compagna cosa lei pensa quando fanno sesso e scopre che lei se lo immagina forse in abiti femminili, si offende perché ritiene che lei lo immagini o lo voglia gay (sic!).
Giulia Lombezzi, autrice del testo, manca completamente l’occasione di mostrare la discriminazione feroce contenuta nei ruoli di genere e con l’ingenuità di chi crede di fare un discorso serio dimostra di avere una ignoranza totale sui temi proposti, scrivendo un testo che, suo malgrado, è maschilista e omofobo.
Quello che infastidisce del testo non è tanto il punto di vista misogino (la donna isterica che vittimizza l’uomo) o patriarcale (la descrizione del ruolo genitoriale come esclusivo appannaggio femminile) o omofobo (l’omosessualità che non è presente nello spettacolo come possibilità affettiva e sessuale autonoma ma solo un accidente di passaggio che capita alle persone eterosessuali) e nemmeno il pietismo con cui viene raccontata la dolorosa transizione sessuale del personaggio trans (la parte meno banale di tutto lo spettacolo), ma la presunzione insopportabile di credere di poter scrivere su un argomento così delicato e così a rischio cliché senza una adeguata preparazione culturale, senza studio, senza il senso di responsabilità politica e sociale che dovrebbe indurre mille dubbi nel portare in scena certi personaggi e certe dinamiche relazionali.
Non mi vestivano mai di rosa paga lo scotto di un paese avvelenato da vent’anni di televisione berlusconiana e dai new media che ha dato la possibilità a chiunque di esprimere giudizi inopinati su qualunque argomento senza averne né la competenza né l’urgenza di una opinione che valga la pena di essere ascoltata.
La regia di Ilaria Manocchio alterna momenti di grande intensità ad altri meno riusciti.
Molto belle le scene con il trans, durante le quali impiega un bellissimo gioco di voci maschili e femminili per restituire il passaggio da donna a uomo che il personaggio compie; ambiziosa e squisita la composizione corale con la quale allestisce diverse situazioni narrative – separate nel testo originale – mettendole in scena contemporaneamente concertando un mosaico dei sentimenti e delle situazioni. Meno felici le interpretazioni dei gameti risolte con una parlata finto bambinesca o la restituzione tutta mossette e affettazioni che i due interpreti maschili danno dei due personaggi femminili incinta cortocircuitando lo scarto tra interprete (maschile) e personaggio (femminile) nella parodia di certi omosessuali effeminati perdendo l’occasione di mostrare come al di là delle differenze biologiche tra uomo e donna l’umanità sia la stessa. Dispiace vedere Valerio Riondino e Aléksandros Memetaj che si dimostrano capaci di momenti di intensità indimenticabile (il primo nell’interpretare il trans il secondo l’uomo che si veste da donna per riconquistare la compagna) cadere nella trappola del pregiudizio patriarcale che li induce a interpretare due donne come fossero due omosessuali effeminati à la vizietto di Molinaro. Più coerenti le interpretazioni di Stefania Capece Iachini e Antonietta D’angelo che risultano affettate solamente quando interpretano due bambine senza riuscire davvero a esserlo, ma limitandosi a rifarne il verso.
Non ce ne voglia Giulia Lombezzi, come le abbiamo detto nel dibattito dopo lo spettacolo (un plauso a Nogu Teatro che, nel festival Nops durante il quale abbiamo assistito allo spettacolo, ha ripreso una tradizione tanto cara al teatro off degli anni 70 del secolo scorso) il suo testo ha comunque il pregio di misurare il gap culturale (e teatrale) con cui il nostro paese affronta le tematiche legate all’identità di genere e gli orientamenti sessuali.
E’ da lì che dobbiamo cominciare a lavorare per ricordare e ribadire che donne e uomini non si nasce ma si diventa.
(25 maggio 2016)
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