di Alessandro Paesano
Il pubblico entra in sala che le due danzatrici sono già in scena.
In posa su una custodia da viaggio di quelle teatrali, borchiate, una delle due performer dà di spalle al pubblico, seduta sulla cassa, il sedere scoperto e nudo, l’altra guarda il pubblico, con una maschera di tessuto che le scopre solamente gli occhi, in atteggiamento di guardia, come una fiera.
Prima ancora che la coreografia inizi Eat Me chiama il pubblico ad agire lo sguardo sui corpi delle due performer. Uno sguardo che risponde a una sessualizzazione che sembra già scritta sui corpi delle due interpreti. Il sedere scoperto, che possiamo solo immaginare e non vedere (lo vedremo quando, subito dopo l’inizio della coreografia, la danzatrice si alzerà e raggiungerà le quinte dando di spalle alla platea) ci richiama a una abitudine scopica che ci riguarda tutti e tutte sia che ci identifichiamo nello sguardo desiderante sia che quello sguardo siamo abituate (o abituati) a subirlo.
La coreografia è prima di tutto un esercizio di riappropriazione del corpo femminile in movimento nello spazio. Una decostruzione dell’abitudine allo sguardo che rende la donna un oggetto da guardare, consumare, desiderare. La decostruzione di questo sguardo patriarcale sulla donna avviene in maniera del tutto priva di pruderie. La critica alla cosizzazione (perdonate il brutto neologismo) non viene negando la bellezza, la sensualità, l’armonia del copro femminile, alla sua liceità di mostrarsi, ma questo riconoscimento non avviene attraverso un sguardo estero che la giustifichi rendendo la donna un elemento del paesaggio, ma come elemento attivo e presente di un essere senziente che si muove, agisce e interagisce con il pubblico e il suo sguardo.
La donna non viene più osservata ma la mestruazione del corpo in movimento osserva per così dire il pubblico che guarda in un rimando tra corpo soggetto (che esiste per sè) e il pubblico che diventa l’oggetto della coreografia.
Nei loro movimenti, che sono costruiti su un regesto di movimenti e azioni consuetudinarie, le due danzatrici si muovono sempre di spalle costruendo una coreografia à rebour che nel momento in cui esercita una critica allo sfruttamento del corpo femminile ne denuncia anche l’effetto spersonalizzante.
A ribadire come lo sguardo desiderante sul corpo delle donne le renda degli oggetti da consumare, ci sono gli interventi di un tecnico che si inserisce nella coreografia spostando il baule da trasporto, disturbando la coreografia sottolineando come il maschio in un orizzonte di significato patriarcale non abbia alcuna considerazione della donna e del suo corpo come essere vivente, come soggetto autonomo e pensante, come corpo organico desiderante ma venga percepita come un oggetto da spostare.
I passi di danza (a terra, supine, prone, dove le schiene inarcate e gli arti inferiori flessi o curvati scrivono una grammatica coreutica inedita, tutta sviluppata di spalle, e all’indietro) mostrano due corpi femminili in movimento che non sono mossi dal desiderio di farsi guardare con desiderio, per cui lo sguardo desiderante è disinnescato e trasformato in uno sguardo che analizza come questi due copri i movimento occupano lo spazio scenico e lo esplorano esistendo.
Senza cadere nella retorica di chi giustifica lo sguardo di sfruttamento sul corpo delle donne perchè alle donne piace essere guardate la coreografia ci educa a una fisicità femminile che esiste nostro malgrado e che nostro malgrado è autonoma, viva, ha una sua individualità e una sua identità, ontologica e sociale.
Fino ad arrivare a un finale che allude a un’altra parte del corpo femminile (il seno) altamente sfruttata dallo sguardo desiderante tanto nelle pubblicità quanto nei programmi televisivi (ma che fa ancora scandalo quando una donna allatta, perchè, non più oggetto da guardare ma parte anatomica di un soggetto che vive e dà vita, diventa incontrollabile e va dunque censurato) concludendo la coreografia così come è iniziata con una parte del corpo femminile come oggetto dello sguardo.
La partitura sonora di Sebastian Kurténè partendo da rumori ritmici tra l’organico e l’inorganico alternata al silenzio restituisce la presenza delle due interpreti come soggetti vivi e organici che, molto meglio di qualunque musica, sa sostenere le coreografie e i movimenti delle due performer, presenze vive, autonome, soggetti desideranti e non più oggetti del desiderio.
Eat me (mangiami, un titolo che non si deve certo spiegare) è una coreografia sorprendente nella sua efficacia e semplicità mostrando una crasi perfetta tra progetto coreutico e discorso politico portato avanti con grande precisione dalle due interpreti Giorgia Lolli (che firma anche la coreografia) e Sophie Claire Annen, nel quale la critica alla sessualizzazione del corpo femminile viene declinato in termini squisitamente coreografici agendo direttamente sullo sguardo del pubblico, che gradisce e applaude.
Eat Me
concept e coreografia Giorgia Lolli
con Sophie Claire Annen e Giorgia Lolli
Visto per voi al Teatro India di Roma il 18 giugno 2025.
(22 giugno 2025)
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