di Alessandro Paesano
Nel suole saggio Shakespeare nostro contemporaneo (Feltrinelli, 1964) Jan Kott commenta che l’Amleto, una delle opere più conosciute e citate di Shakespeare anche da chi di storia del teatro ne mastica poco, parli al pubblico della sua contemporaneità, vista in ogni messinscena da un punto di vista diverso individuando diverse letture, politica (la guerra che Fortebraccio minaccia contro la Danimarca) o generazionale (la ribellione dei giovani contro lo status quo) o, ancora, basata su una questione etica tra cosa sia bene e cosa male, o sulla (im)possibilità dell’amore tra Amleto e Ofelia.
Questi diversi approcci, spiega Kott, sono strumenti attraverso i quali viene ridotta la densità d’un testo che se venisse messo in scena nella sua interezza durerebbe circa sei ore. La lettura del testo è sempre occasione per una sua riduzione a una durata ragionevole.
L’Amleto in scena al teatro Basilica di Roma, forte di una nuova traduzione di Nadia Fusini, sfronda gli aspetti più direttamente politici del testo e cancella la presenza di Fortebraccio, nipote del re di Norvegia, che sta per invadere la Danimarca e che, dopo la morte di Amleto diventa il nuovo Re.
In questa messinscena, diretta da Fabrizi, la morte d Amleto non suggella l’investitura di un nuovo Re, ma celebra un’amicizia tra uomini, sulla quale torneremo.
Fabrizi non impiega il testo per dare in tralice una lettura del contemporaneo ma impiega il suo expertise per restituire il testo al pubblico di oggi in maniera intelligibile, scevra da sovrastrutture e mode interpretative.
Lo spettacolo è stato allestito per la Festa di Teatro Eco Logico a Stromboli, all’aperto, in mezzo alla natura, senza corrente elettrica (dunque senza illuminazione). È stato poi portato in uno spazio all’aperto urbano, a Piazza Sempione, lo scorso luglio a Roma, di nuovo senza l’ausilio di illuminazione artificiale e adesso approda allo spazio chiuso di un teatro, quello peculiare del teatro Basilica, allestito sui resti di un antico edificio romano che da cui prende il nome.
La messinscena si avvale della presenza agguerrita di un nutrito gruppo di interpreti, sei attori e due attrici, che incarnano 15 personaggi. Attori e attrici che sono già in scena mentre il pubblico si accomoda in platea dove conversano, sorridono, si muovono liberamente sul palco, finiscono di indossare gli abiti di scena.
Intanto Giovanni Ciaffoni suona alla chitarra un brano di sua composizione al quale presto si aggiunge un testo (what dreams may come dal famoso monologo di Amleto), eseguito dalla bella voce del suo autore alla quale si intrecciano presto quelle degli attori e delle attrici mentre confabulano, scherzano, si abbandonano a qualche momento di tensione o di pausa, o di riflessione, prima dello spettacolo, in un equilibrio squisito tra finzione e realtà, dove la presenza sul palco, anche prima della rappresentazione, è sempre un momento rubato alla vita dei personaggi e non a quella degli e delle interpreti.
L’inzio dello spettacolo è squisitamente teatrale. Dalla situazione di rilassatezza degli attori e delle attrici in scena prima dello spettacolo si piomba nel buio pesto da quale emergono le voci di Orazio e delle guardie che descrivono la presenza del fantasma del padre di Amleto, che non viene così mostrata ma solamente detta. Quando le luci si riaccendono siamo alla corte di Claudio e la presenza degli attori e delle attrici in scenaadesso ha una giustificazione da copione.
La regia di Alessandro Fabrizi, abituata a risolvere i problemi scenici dei due allestimenti all’aperto, si adatta benissimo allo spazio del teatro Basilica, sfruttando sia la profondità del palcoscenico (compreso lo spazio dietro un arco di quinta, praticabile anche in altezza, dove fa recitare alcuni brani della tragedia) e un sontuoso trabatello che è di presenza stabile al teatro, impiegato, tra l’altro, per la scena del teatro nel teatro (quando Amleto per verificare che il fantasma di suo padre stia dicendo il vero ne fa impersonare l’omicidio davanti al Re per vedere se Claudio se ne turba).
La direzione degli attori e delle attrici di Fabrizi emoziona perché si distingue per una visione del teatro di grande rispetto per lo spazio, per chi vi recita e per chi vi assiste, riconoscendo a ogni partecipante un ruolo preciso in un rito collettivo che sopravvive ancora oggi, dopo tanti secoli.
Fabrizi riesce a restituire la classicità del dramma scespiriano rinunciando a tutti gli orpelli interpretativi, quelli classici che tanto infastidivano Carmelo Bene e quelli più contemporanei diventati anche loro una maniera.
Ci è sembrato meno sotto controllo però il registro registro comico, soprattutto nel quinto atto quando il primo becchino lancia i teschi che trova mentre scava la fossa per Ofelia come fossero palle da Bowling con uno spirito popolano un po’ troppo disinvolto, mentre Esposito restituisce le battute di Amleto, che dovrebbero essere ironiche e sottili con una disinvoltura che cerca e anche il registro lessicale di Esposito si stempera improvvisamente nel commento contemporaneo.Fabrizi sa usare le doti dei suoi attori e delle sue attrici con intelligenza e senza strafare, mettendosi in gioco egli stesso scegliendo di interpretare, oltre al prete e alla voce del fantasma di Amleto padre, l’attore-burattinaio nella scena del teatro nel teatro, manovrando dei pupazzi senza volto che rappresentano Claudio, Amleto padre e Gertrude nella scena allestita da Amleto come trappola per Claudio.
Pur con una caratura diversa data dall’età e dalle diverse esperienze sul palcoscenico, ogni interprete regala al proprio, ai propri, personaggi qualcosa di sé in uno scambio reciproco che emoziona il pubblico.
Maria Vittoria Argenti è una Ofelia fuori dagli schemi, molto meno fragile di certa tradizione, capace di restituire il dolore e la follia con grande credibilità senza calcare la mano, cui fa da contraltare l’interpretazione del Primo Becchino che si stenta a credere sian la stessa interprete a recitare.
Francesco Buttironi è un Orazio teneramente virile, che immalinconisce e restituisce con grande forza l’amicizia che lo lega ad Amleto, cambiando totalmente linguaggio del corpo quando interpreta Guildenstern.
Alessio Del Mastro dà a Laerte tutte le sfumature emotive richieste dal testo compresa la disperazione per la morte della sorella per la quale arriva a sacrificare la comprensione di alcune (poche) parole, come capita a chi è travolto da un dolore immenso, e anche lui sa incarnare un Rosencrantz con un sapiente cambio di postura che lo rende molto identificabile anche quando non ha battute.
Laura Mazzi è una Gertrude magnifica che restituisce la regalità del suo personaggio con quella grazia distratta di chi sa di avere privilegi reali.
Salvatore Palombi è un Polonio autorevole e credibile quanto spassosamente buffo è il suo Osric e ancora diverso quando recita il Secondo Becchino mentre Clemente Pernarella è un Re Claudio misurato ed efficace che sa resistere alla tentazione di mostrare una malvagità esagerata e sopra le righe.
Infine, last but not least, Alessio Esposito che interpreta Amleto, il motore del dramma, e nella sua interpretazione ci fornisce una chiave di accesso al testo.
Il suo Amleto non è infatti né l’introverso giovane stralunato né il principe folle e malvagio che fa impazzire Ofelia di certa tradizione. È un giovane il cui futuro è stato spezzato dalle decisioni di un mondo adulto che lo usa per suoi fini al quale Amleto reagisce con ironia e con disincanto credendo sempre di riuscire a proseguire per la sua strada fino a quando non sta per morire e se ne rammarica con Orazio.
In questo finale mesto ed intimo, dove un amico piange la morte del suo pari ci sembra che la messinscena affronti il dramma dal punto di vista di una certa elezione di genere tutta al maschile che vede schermaglie tra uomini, mettendo in discussione l’amicizia come Amleto e Laerte, o punendone il suo tradimento (l’uccisione di Rosencrantz e Guildenstern) o indugi nella competizione più estrema come quella tra Amleto e Claudio fino all’amore amicale tra Orazio e Amleto, che gli muore tra le braccia.
Le donne intanto sono in minoranza, e muoiono per mano maschile, propio come nella nostra contemporaneità. Ed ecco che, suo malgrado, anche questa messinscena così sinceramente interessata al testo parla della nostra contemporaneità.
Jan Kott non smette di avere ragione.
La tragedia di Amleto, principe di Danimarca
di William Shakespeare
Traduzione di Nadia Fusini
Regia Alessandro Fabrizi.
Assistente alla regia Silvia Ignoto
Costumi di Marina Sciarelli
Musiche di Giovanni Ciaffoni e Gianluca Misiti
Con Maria Vittoria Argenti, Francesco Buttironi, Alessio Del Mastro, Alessio Esposito, Alessandro Fabrizi, Laura Mazzi, Salvatore Palombi, Clemente Pernarella.
Visto per voi al teatro Basilica di Roma il 10 dicembre 2024
(12 dicembre 2024)
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