di Alessandro Paesano #vistipervoi twitter@Ale_Paesano #fassbinder
Di Das Kaffeehaus di Fassbinder la riscrittura de La bottega del Caffè di Goldoni del 1969, in Italia si scrive molto, anche a sproposito (come nella distratta introduzione di Di Gianmarco alla traduzione italiana del testo pubblicata da Gremese nel 1989, nella quale descrive Lisaura come donna frivola perché rifiuta gli orecchini datigli in omaggio da Don Marzio perché riciclati mentre in realtà l’uomo glieli sta vendendo…) ma la si mette in scena poco.
L’occasione di vederla a teatro ha dunque, oltre l’interesse per la messinscena d’autore di Veronica Cruciani, anche quella della rarità d’esecuzione.
La storia di tradimenti e di debiti di gioco del settecentesco Goldoni diventa tra le mani di Fassbinder una storia di gangster (Fassbinder dà una pistola a tutti gli uomini) di prevaricazione e di prostitute.
Una prostituzione che rimane un marchio indelebile, come spiega Leandro a Lisaura: “Ti avvolge un alone di marcio, quella che tengo tra le braccia è pelle non più rosea, è carne fetida” (ma per Di Giammarco Leandro è irretito da Lisaura…), una prostituzione dalla quale Lisaura tenta disperatamente di emanciparsi.
Fassbinder asciuga e concentra le tante scene dei tre atti Goldoniani in alcuni snodi drammaturgici nei quali la trama originale viene declinata all’interno di una poetica dove soldi e sesso sono strumenti di potere e sottomissione mentre l’amore e la disponibilità verso il prossimo rendono le persone fragili e usabili come il servo Trappola che paga i debiti del giovane Eugenio senza che questi senta il minimo obbligo di gratitudine o smetta mai di giocare d’azzardo come pure gli ha promesso.
Anche il lieto fine, quando Placida dice a suo marito Leandro (che in realtà si chiama Flaminio) che lo perdona ed è pronta a tornare casa con lui, è piuttosto un sacrificio d’amore non apprezzato, in passato (non è la prima volta che Flaminio fugge di casa) e probabilmente nemmeno in futuro.
I soldi corrompono e per averli si fa di tutto (gli orecchini che Don Marzio tenta di vendere a Lisaura sono della madre di Vittoria, la moglie di Eugenio) anche prostituirsi come fa Vittoria, sentendosi in obbligo di rimediare ai debiti di gioco del consorte, consigliata dall’anziano biscazziere Ridolfo che in Vittoria ed Eugenio vede i figli che non ha avuto…
Mentre Don Marzio, che in Goldoni è personaggio negativo, è tratteggiato da Fassbinder con simpatia, con bonarietà, la sua indole al pettegolezzo lo rende più sprovveduto che malvagio.
Veronica Cruciani approccia il testo dal punto di vista del carnevale di Venezia (città dove è ambientato).
La scenografia prospettica, quasi da mondo novo veneziano (delle scatole ottiche molto in voga ai tempi di Goldoni) è molto suggestiva, e vede una pedana sormontata nella parte sinistra da un soffitto obliquo inclinato verso il punto di fuga del fondo dove tre porte-finestra permettono di vedere l’esterno. Ogni parete è colma dello stesso motivo decorativo da broccato, nero su bianco, che continua sull’impiantito anche a destra dove la scena è libera da “soffitti”. Qua e là alcuni tavolini del caffè.
E’ sul fondo di questa scena, dietro le tre finestre, che i e le nove interpreti appaiono la prima volta, e ritornano ogni tanto, tra una scena e l’altra, tutte e tutti con una maschera in volto, danzando al ritmo di una musica da disco bar, in quello che appare un festino gaio e moderno.
Un modo immediato di restituire l’atmosfera della bottega del caffè e anche della bisca dove si svolge l’azione.
Purtroppo questa danza da festino viene ripetuta senza varianti, rimanendo un nodo drammaturgico che non si scioglie, diventando un intermezzo di maniera che intralcia l’interpretazione del testo piuttosto che contribuirne alla comprensione.
Una pantomima che sembra scaturire da un giudizio moralista sui costumi decaduti del genere umano come se si trattasse di una questione di decoro e non della profonda radice umana come vuole Fassbinder.
Interessante le direzioni di regia, in un testo molto parco di didascalie, che, invece di calcare la mano sulla ferocia da gangster di Fassbinder, ritorna invece alla commedia goldoniana (come quando Vittoria mentre Ridolfo millanta di avere solamente 50 anni rimane impigliata nel parrucchino dell’uomo togliendoglielo senza volerlo) o quando l’ossessione di Don Marzio per la prestanza fisica di Leandro con Lisaura diventa uno squisito momento di commedia borghese.
Trappola, che in Goldoni e in Fassbinder è un servo anziano, diventa nella messinscena di Cruciani un servo giovane.
Così l’amore dell’anziano Trappola per il giovane Eugenio nel quale rivede il giovane che fu inducendolo a dargli i soldi per pagare i debiti diventa in Cruciani un amore carnale con tanto di bacio in bocca, dal quale Eugenio subito si schernisce, cui fa da pendant l’inopinato accenno a una fellatio fatta a Placida, nei panni maschili di un cugino di Lisaura, mentre, nel testo, Pandolfo allude al fatto che il cugino appartenga al genere contro natura.
Queste allusioni all’omosessualità maschile, che possono essere letture legittime del testo (Cruciani vuole forse ricordarci che Fassbinder era gay?) non hanno alcuno sviluppo drammaturgico, lasciando il tempo che trovano (del suo “amore” non corrisposto per Eugenio Trappola si dimentica subito) rischiando di annoverare l’omosessualità tra i sentimenti (e le pratiche sessuali) scaturiti dal vizio e della corruzione del denaro.
E anche al minimo rischio di una lettura negativa dell’omoerotismo forse valeva la pena si lasciar stare l’omosessualità del tutto…
Molto efficace invece l’intesa tra i tre personaggi femminili una cui lite feroce si blocca all’improvviso quando le tre donne si rendono conto che non devono lottare tra di loro ma adoperare strategie comune per riprendersi i rispettivi uomini.
La messinscena rimane in un equilibrio impeccabile tra commedia (goldoniana) e dramma (di Fassbinder) per buoni due terzi della rappresentazione, verso la fine però si sgrana a causa di una regia improvvisamente confusa sia sul piano fisico (la dislocazione dei personaggi) sia quello della recitazione (attori e attrici si sovrastano un poco con la voce e solo quelli e quelle con una maggiore capacità di fonazione riescono a farsi distinguere mentre degli altri e delle altre le parole vengono un poco perse).
Il finale, quasi dantesco e che non sveliamo, arriva all’improvviso ma un po’ in sordina smorzando la forza icastica della sua trovata elegante e perfettamente coerente con il testo, risultando quasi un esercizio di stile.
Oltre alle scene, splendide, di cui si è detto, altrettanto splendidi sono i costumi, entrambi di Barbara Bessi: indimenticabile l’abito lungo di Vittoria che lei apre mostrando due gambe in collant e un interno gonna tappezzato generosamente di volant.
Anche la partitura sonora (compreso quello sciabordio continuo per ricordare che la scena si svolge in una città d’acqua) sa districarsi tra riferimenti classici e più contemporanei.
Cruciani ci propone un allestimento che nonostante alcune cadute di stile e un finale appannato sa rendere giustizia di un testo difficile e raro nel panorama dei teatri italiani.
Teatro Vascello
fino al 30 gennaio (ore 10.30)
DAS KAFFEEHAUS.
La bottega del caffèdi Rainer Werner Fassbinder
da Carlo Goldoni
traduzione di Renato Giordano
regia e adattamento scenico di Veronica Cruciani
con la Compagnia del Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia Filippo Borghi, Ester Galazzi, Andrea Germani, Lara Komar, Riccardo Maranzana, Francesco Migliaccio, Maria Grazia Plos, Ivan Zerbinati (attore ospite)
e con Graziano Piazza
scene e costumi Barbara Bessi
drammaturgia sonora Riccardo Fazi
disegno luci Gianni Staropoli
produzione Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia
(27 gennaio 2018)
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