di E.T. twitter@iiiiiTiiiii
Il 30° Todi Festival, al quale abbiamo il piacere di partecipare per raccontarvelo, dopo un pomeriggio di gradevolissimi eventi che vi raccontiamo nella nostra sezione cultura, apre al teatro con lo spettacolo “Il Legame”, da “Le Lien”, testo originale francese del 2012 di Amanda Sthers, autrice molto amata in Francia. Il programma del festival non chiarisce se lo spettacolo è ispirato al testo originale o ne è una traduzione, certo è che il fatto che non risulti il nome dell’autore della versione italiana ispirata all’originale, o dell’autore della traduzione, lascia a questo cronista dubbi che verranno trasmessi al lettore. Cosa che si sarebbe potuta evitare. Faremo come se fosse “liberamente ispirato a…”, il che spiegherebbe una certa “italianità” nel gestire la storia della quale parleremo in seguito.
“Il legame” racconta di fratello e sorella che s’incontrano per la prima volta in età adulta, dopo la morte del padre, esplodendo subito le tensioni tra essi: i due sono infatti nati dallo stesso padre, ma in due famiglie differenti e da madri differenti. La psicologia dei personaggi in scena è assai semplice e facilmente intuibile è lo svolgimento della commedia, che la regista Gisella Gobbi avrebbe potuto cercare di rendere un minimo interessante intervenendo sulla recitazione degli attori: fratello e sorella si scannano per puerili questioni di eredità, incolpano padre e madri dei loro dolori, utilizzano i mezzi elementari di cui sono dotati per cercare una vita decente, si colpiscono, feriscono, amano, scopano (e francamente non si capisce perché), in un susseguirsi di battute e immobilità sceniche che ci fanno interrogare sul dove fosse la regista durante le prove.
Purtroppo per Gobbi i due attori non sono assolutamente all’altezza della sfida che il testo mette loro sotto il naso: Lucia Bendia e Francesco Bonomo sono assolutamente monocorde, incapaci di sottolineare con un pur minima variazione emozionale le importanti sfumature del testo (che è arricchito da battute fulminanti che il pubblico non percepisce, perché Bonomo è incapace di suonare le corde dell’ironia), il corpo degli attori non esiste, perennemente appoggiati su gambe molli e ginocchia piegate, inconsapevoli di avere braccia se non per gesti inutilmente plateali tesi a riempire la scena. Le regista compie, in più, la scelta suicida di far recitare – troppo spesso – Bendia di spalle, con il risultato di farla scomparire anche quando la sua posizione è frontale. Il testo, che alterna momenti di profondo odio ad altri di altrettanto profonda umanità, viene banalizzato dall’incapacità dei due interpreti di sottolineare l’uno e l’altra, di cambiare registro, di fare leva su corde emozionali differenti dalle usuali. Esempio di quanto andiamo dicendo il momento in cui Paul (Bonomo) dichiara alla sorella Marie (Bendia) di essere “completamente ubriaco” senza che la sua postura corporea cambi di una virgola. A tutto questo va aggiunta la sgradevolissima abitudine di Bendia di inumidirsi le labbra con la lingua prima di ogni battuta, segno di una tensione inesistente e di nessun aderenza al personaggio interpretato. Dove stava colei che avrebbe dovuto suggerire di non farlo?
Qualche incongruenza nel testo ci lascia perplessi: Paul si dichiara omosessuale, poi dice che va anche con le donne, e poi si tromba la sorella, e della sua dichiarazione d’omosessualità non si ha più traccia; insomma la sensazione è che, come troppo spesso accade in questo paese, si sia cercato di sottolineare gli aspetti “trasgressivi” [sic] di un testo, invece di evidenziare il feroce attacco ai ruoli sociali di genere ed al maschilismo imperante che il sottotesto suggerisce, e che è caratteristica della drammaturgia di Sthers.
Lo spettacolo prosegue, ma è prevedibile: gli attori sono sempre più lasciati a loro stessi; il letto che si intuisce in scena dall’inizio viene finalmente illuminato per una scena post-sesso nel quale lei è castissimamente sotto le coperte e lui maschissimo in boxer e petto nudo (se ne poteva fare a meno!) per rimarcare ulteriormente la sua superiorità di maschio nei confronti della poveraccia che dopo una scopata si innamora. Stupisce che la regista sia una donna.
Lo spettacolo si chiude con “Libertango”: perché di banalità si muore (poi dura altri quindici minuti, ma era già finito). Il pubblico applaude e si ha la sensazione che la “claque” di Bonomo ci dia dentro di gusto. Anche questo è parte del gioco e l’applauso del pubblico è liberatorio per gli attori, per la regista e per questo cronista.
A noi dello spettacolo non è piaciuto nulla, a parte il teatro pieno e l’amore che i tuderti dimostrano per la loro trentennale manifestazione estiva.
Abbiamo trovato pessimi gli attori, inesistente la regia, il testo ci lascia perplessi anche a causa di alcune indecisioni di traduzione (c’est pas grave tradotto con non è grave, non si può sentire), fastidiose le luci con sporcature evidenti nei puntamenti che proiettavano ombre oblique su tutta la parte destra del palco.
Un’anteprima. C’è spazio (e prove) per migliorare.
Noi da parte nostra ci procureremo il testo nell’originale francese così da arricchire questa cronaca di elementi linguistici mutuati direttamente dal lavoro dell’autrice, Amanda Sthers.
Il Legame (Le Lien) è una produzione di Teatro Valmisa, Todi Festival 2016 in collaborazione con il Teatro Stabile d’Abruzzo.
(28 agosto 2016)
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