di Stefano Cangiano twitter@stefanocangiano
Il Sole compare sulla scena e dal suo carro pronuncia un estremo proposito: non vuole più illuminare la Terra. L’uomo deve essere spodestato, per troppo tempo ha assunto per sé il ruolo di imperatore dell’universo e ora deve essere ricondotto alla realtà, alla condizione di granellino infinitesimale di un pianeta ai limiti del sistema.
Poeti e filosofi hanno un ruolo decisivo in questo passaggio rivoluzionario, perché “i poeti invogliano, i filosofi svogliano”, i primi creano speranze illusorie e sta dunque agli altri ricomporre l’ordine naturale.
Da qui parte “De Revolutionibus – Sulla miseria del genere umano” di Carullo Minasi, fino a stasera (17 aprile, ndr) al Teatro Interno 5 di Napoli, che unisce due operette morali di Giacomo Leopardi per portare avanti una riflessione dai connotati onirici sull’uomo e sull’arte.
Si diceva del Sole, che cede il passo a Copernico, autore di un’autentica rivoluzione, quella che dimostrò con calcoli e misure che era il Sole stesso ad essere il centro gravitazionale e la Terra uno dei pianeti che descrivevano la propria orbita attorno a questa stella.
Una nuova rivoluzione è necessaria ora, ristabilire ruoli e gerarchie di valori, spazi e regole. Ben presto però nella favola leopardiana che anima la scena Copernico cede il passo al poeta, “un povero disgraziato”, vittima della sua stessa virtù in un mondo dove ogni cosa è al contrario e l’esercizio del bene e del bello è dannoso. Il meccanismo livellatore della modernità punisce le differenze, teme le vette e condanna all’abisso della mediocrità, dove a imporsi è quel che prima era chiaramente identificabile come negativo e ora è norma e costume.
Giuseppe Carullo e Cristiana Minasi si servono dell’ironia e della malinconia leopardiane per realizzare un’idea di teatro che sfrutta fino in fondo la propria forza immaginifica e che è guidata da una vocazione poetica. È un teatro nobile il loro, perché è gioco e riflessione, è azione continua con oggetti di scena e movimenti ed è meditazione. “De revolutionibus, Sulla miseria del genere umano” preserva il disincanto di Giacomo Leopardi e lo amplifica con la stessa componente di fiducia tradita che animava il poeta di allora ed è un tratto comune dei drammaturghi di oggi. Se un limite si può trovare nello spettacolo dei due drammaturghi, attori e registi è solo in una resa performativa non equilibrata tra le parti. Alla multiforme capacità mimetica di Minasi fa da contraltare una recitazione più monocorde di Carullo, che pure è chiamato ad un lavoro sul palco che lo sollecita continuamente. Quel che resta però è quella nobiltà di cui dicevamo, di intenti e di pratiche, quell’idea di teatro che vivifica chi vi entra in contatto, chi sente il peso delle proprie e altrui miserie e riconosce, grazie a uno spettacolo come questo, una possibilità di riscatto: l’arte.
Allora la sensazione è che una nuova rivoluzione sia possibile, un moto di rivoluzione, che non è quello che la Terra descrive intorno al Sole ma una spinta interiore a sostenere la causa dei tanti poveri disgraziati poeti che popolano ancora il mondo e che magari lottano contro la chiusura di un teatro. Vengono in mente le parole di un altro grande rivoluzionario, Giordano Bruno, “Ti par che farebbe male…”.
(17 aprile 2016)
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