“Le parole del Golem”, al Teatro India di Roma. Un’allestimento coraggioso

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di Andrea Mauri

Il Golem di Juan Mayorga è un testo molto complesso. Si può definire l’analisi della parola, o meglio, lo studio degli effetti delle parole sulle nostre esistenze.

Grazie a una scenografia molto suggestiva, allestita al Teatro India di Roma, il Golem che tutto vede e controlla, prende la forma di un grande cubo bianco, dove si riflettono le immagini e le vite dei protagonisti della storia e da dove si irradia la poca luce in stanze simili a celle, separate dall’esterno da vetri che anch’essi riflettono ciò che appare, cubicoli illuminati da neon per affievolire temporaneamente l’atmosfera lugubre del luogo.

In un gioco di specchi, si confrontano una donna misteriosa che si fa chiamare Salinas (Elena Bucci), di apparenza algida, vestita di nero, e Felicia (Monica Piseddu), la moglie di un paziente ricoverato in quell’ospedale, forse carcere, forse quartier generale di qualcosa di più misterioso. Il paziente, Ismaele (Woody Neri), è chiuso in una di quelle stanze, lo spazio che occupa si illumina di luce tenue, l’attenzione si concentra sul suo corpo malato.

La regia di Jacopo Gassmann rende bene il senso di angoscia diffuso tra le pareti a vetri e nell’animo dei personaggi. La moglie di Ismaele è seduta in una triste caffetteria, sorseggiando una birra analcolica in un bicchiere di plastica, quando viene avvicinata dalla misteriosa Salinas: un medico, il direttore dell’ospedale o un funzionario amministrativo?  Salinas sfugge alle domande di Felicia, però le propone un patto per la guarigione di Ismaele: imparare tre parole al giorno; un impegno minimo, spiega la donna.

In fondo che cosa costa imparare tre parole al giorno, se ciò significa salvare il marito? Felicia all’inizio è titubante per l’atteggiamento protervo e manipolatorio di Salinas, dubita sull’esperimento, ma la malattia di Ismaele non ha un nome, non si conosce terapia, e proprio quelle tre parole al giorno potrebbero avere il potere di salvarlo.

Le parole, appunto. Con il loro potere magico e salvifico, ma anche distruttivo della mente umana. È una proposta semplice, ma pericolosissima: Felicia decide di accettarla. L’immagine delle due donne si sovrappongono nel consueto gioco di specchi, di luci, di riflessi tra le stanze oblique del fantomatico ospedale, mentre un brusio costante di voci sommesse, che a tratti urlano qualcosa di incomprensibile, accompagna la vita in quel luogo angosciante. Malati che si ribellano al loro destino? Malati che non finiranno mai di soffrire? Malati che non sanno più chi sono e si riconoscono solo in quei versi animaleschi?

Salinas dice che sono voci ribelli; Felicia non sa a cosa credere, fino a quando da una di quelle stanze separate dal vetro, appare il marito seduto sul letto, accasciato sul suo stesso corpo privo di emozioni, prosciugato nell’anima. Per la moglie è arrivato il momento di studiare le tre parole al giorno sotto lo sguardo luminoso del Golem al centro della scena e della proiezione di video di foreste in bianco e nero sulle pareti laterali, un ulteriore spazio di immaginazione, una via di fuga all’oscurità opprimente dell’ospedale.

Moglie e marito si confrontano sulla terapia; Felicia ripete le tre parole al giorno a Salinas. Le parole si trasformano in numeri trasmessi all’impianto neuronale di Ismaele, perché producano risultati. Le menti si spengono con il passare del tempo; anche Felicia perde le emozioni.

La sua personalità si trasforma sotto la spinta delle parole. Felicia scopre che quelle parole sono le stesse pronunciate da un despota del passato. Lei, senza accorgersene, è entrata a far parte del sistema di controllo di un’autorità superiore, sotto la vigilanza di Salinas, attenta all’esecuzione del protocollo.

Le parole hanno plasmato prima Ismaele, poi Felicia. Il Golem prosegue nel suo piano di controllo totale dell’umanità. Un despota può reprimere un popolo e manipolarne il pensiero.

Di nuovo le due donne a confronto attraverso i vetri delle stanze – celle dell’ospedale, entrambe soffocate dalla presenza ingombrante del cubo pieno di luce. Felicia ormai è persa sul letto, spenta come il marito, svuotata di ogni iniziativa. Un ultimo sguardo con Ismaele, prima di abbandonarsi completamente alla misteriosa malattia di quell’ospedale golem.

Juan Mayorga dichiara: “Avevo scritto El Golem alcuni anni fa, ma qualcosa è accaduto durante il lockdown – in mezzo allo sconvolgimento generale, all’angoscia di tanti, alla paura di altri che l’ordine in cui avevamo vissuto potesse crollare – che mi ha spinto a riscriverlo. Il tema centrale, credo, è il potere delle parole che ci avvolgono e ci attraversano e con le quali costruiamo i nostri incubi e i nostri sogni”.

Scrive Jacopo Gassmann: “La parola, appunto, intorno a cui tutto ruota, a partire dal mistero profondo di questo testo. La parola che al contempo può rigenerarci o segnare traumaticamente i nostri destini. La parola che può certamente liberarci ma anche trasformarci fino a non riconoscere più chi siamo. La parola che crea e distrugge (…) L’autore getta il suo scandaglio negli abissi di questa epoca oscura, raccontandoci di un mondo che sta lentamente collassando o sfarinando – verrebbe da dire – mentre, come diceva Flaiano, ‘qualcosa si va lacerando nel tessuto divino dell’umano’”.

 

Il Golem di Juan Mayorga
traduzione Pino Tierno
regia Jacopo Gassmann
con Elena Bucci, Monica Piseddu e Woody Neri
video Lorenzo Letizia
direttore di scena Nanni Ragusa
scene e costumi Gregorio Zurla
foto di Laura Farneti
produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Sardegna Teatro e Teatro Stabile dell’Umbria

 

Spettacolo visto al Teatro India di Roma il 19 marzo 2025.

 

 

(21 marzo 2025)

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