Le tre sorelle di Claudia Sorace: una messinscena al servizio delle attrici

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di Alessandro Paesano

Delle commedie di Cechov si dice che i suoi personaggi non dialoghino ma parlino per monologhi. L’idea di (stra)volgere i quattro atti delle Tre sorelle in un discorso continuo fatto da tre voci narranti che restituiscono i punti di vista e il testo di tutti i personaggi ha un suo appeal drammaturgico e infatti sulla scena funziona.
Estrapolate dall’impianto naturalistico del testo originale le parole di Maša Ol’ga e Irina si alternano con quelle degli altri personaggi, maschili e femminili, tutte intrecciate nello stesso discorso un qui e ora equidistante da un passato immobile e un futuro incerto eppure anelato.
A fare da collante a questo iper-testo dove le singole voci rimangono riconoscibili e identificabili gli interventi sonori di Lorenzo Tomio che suona dal vivo tastiere, tamburi, chitarra e uno strumento a corde orizzontale, sostenendo, amplificando, anticipando e ribadendo tutto il portato emotivo del testo detto dalle tre interpreti.
Le voci delle tre attrici, Monica Piseddu, Arianna Pozzoli e Federica Dordei, sono amplificate permettendo di giocare con la dinamica e l’effetto sonoro.
Anche l’uso dell’illuminazione, di Maria Elena Fusacchia, viene impiegato in maniera espressiva e drammaturgica, come quando, all’inizio, prima ancora che il testo venga proferito, nel buio della sala, un fascio di luce filiforme illumina solamente le mani delle tre interpreti, mani che prendono forma dentro il fascio muovendosi come forme fantasmatiche, stregonesche, dando alla presenza delle tre voci un’aurea atavica, primigenia quasi. Meno originale l’impiego della luce strozzo per restituire l’effetto ralentì di una caduta verso terra più cinematografico che teatrale.
La lettura drammaturgica che Riccardo Fazi fa sul testo parte dall’idea di cristallizzare  le dinamiche dei personaggi del testo di Cechov  in una condizione umana atemporale e immobile che ha come punto di riferimento gli effetti relativistici di un buco nero, una stella talmente massiva che si stacca dallo spazio tempo regolari in una singolarità all’interno della quale il passato rimane congelato e il futuro viene anticipato in degli sprazzi visibili nel presente come viene ben spiegato  nel programma di sala: Ogni cosa è già successa, o forse deve ancora accadere, tra le pareti di un edificio sospeso nello spazio-tempo, ultimo rifugio nel cuore di un buco nero.

Manca però alla messinscena un controllo di misura.
Intanto il fatto che le voci siano amplificate imporrebbe un controllo della dizione che non sempre viene mantenuto. Le voci amplificate (soprattutto quella di Monica Pisseddu) in certi momenti mancano di comprensibilità e intere parole, schiacciate dall’amplificazione, risultano del tutto indecifrabili.
Il registro urlato, usato con poca parsimonia, ha un effetto delegittimante sui personaggi  perchè quel che viene da loro urlato,  non è più  l’espressione del malessere di una popolazione, di una classe sociale, di una civiltà, ma rischia di ridursi all’ecolalia di una  presenza fantasmatica, che la drammaturgia preferisce presentare dal versante espressionistico, vitalistico, a discapito della verità del personaggio rimanendo una pura forma espressiva esteriore.
La scelta di aver avulso il testo da un preciso contesto storico lascia disperdere i dettagli di certe idiosincrasie dei personaggi che nella Russia zarista avevano un significato ben preciso mentre  in una messinscena che vuole i personaggi mossi da una ricerca sul rapporto tra tempo e identità non hanno un particolare significato.
Quello che ci sembra  meno riuscito di questa drammaturgia sono proprio certe affettazioni nel dispositivo performativo delle tre interpreti, quando accennano a lacerti di canzoni anglofone pescando da un immaginario collettivo contemporaneo mentre i personaggi nel testo originale parlavano in francese; oppure quando si prodigano in una serie di movimenti ripetuti e reiterati, tra il passo di danza e il tic nervoso, acquisendo posture da sdraiate, intrecciando i corpi in arrotolamenti con possibile malizia incestuosa, tutti elementi che, mutatis mutandis,  ricordano tremendamente quell’attorume nerovestito di cui si lamentava Carmelo Bene qui proposto  dal versante del teatro di avanguardia.

Queste sovrastrutture recitative invece di essere al servizio del testo ci sembra siano al servizio delle attrici in una drammaturgia tutta sbilanciata verso un narcisismo della performance dove il testo originario  è poco più di un pretesto.
In una rilettura così invasiva sarebbe stato più rispettoso presentare questa versione delle Tre sorelle come uno spettacolo tratto da e non di Cechov.
Eppure anche così rarefatto il testo funziona, a dimostrazione che i classici sopravvivono a qualunque riscrittura.

Il resto è moda.

Tre sorelle
di Anton Čechov
regia Claudia Sorace
drammaturgia / suono Riccardo Fazi
con Federica Dordei, Monica Piseddu, Arianna Pozzoli
musiche originali eseguite dal vivo Lorenzo Tomio

Visto per voi il 6 dicembre 2024 al teatro India di Roma

(8 dicembre 2024)

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