di Alessandro Paesano #Vistipervoi twitter@gaiaitaliacom #Teatro
In uno spazio, altrimenti vuoto, unici elementi accessori una poltrona marginale dal rivestimento liso e un elemento indecifrabile, il cui aspetto proteiforme può far pensare a una nuvola che incombe sospesa sullo spazio scenico, si muovono un uomo e una donna.
Lei in costume da bagno intero, lui in camicia pantaloni e cravatta, attraversano lo spazio, lo esplorano, ne saggiano l’aria con movimenti speculari e sincroni, mossi dalla stessa esigenza di movimento.
Se riconoscono l’uno la presenza dell’altra incrociandosi senza ostacolarsi non pensano a muoversi insieme continuando a esprimere un linguaggio del corpo individuale che connota la leggerezza (i movimenti coreografici eleganti, ariosi, ludici) e il solipsismo di chi è troppo dentro il proprio ego per poter davvero accorgersi dell’altro, dell’altra.
Già nella coreografia d’apertura de I giardini di Kensington di e con Elisa Pol e Valerio Sirna tutti gli elementi della drammaturgia sono agiti e dichiarati con franca gaiezza.
La gaiezza dell’argomentare leggiadro e disinvolto di lei, la presenza distratta e sempre un poi altrove di lui, quando parlano le loro parole sono sempre un po’ dei monologhi anche quando non lo sono e sempre un po’ dei dialoghi anche quando esprimono pensieri ad alta voce.
Che sia lei a chiedersi, divertita e narcisa, quali sono, secondo lui, i suoi difetti, piuttosto che i pregi per poi passare a esprimere i propri gusti sulla fisicità di lui, o che sia lui a domandarsi quale configurazione architettonica della casa sia più consona chiedendosi se lei preferisce una casa con poche stanze, ma grandi, o una con tante stanze più piccole e la sua scelta cambia se nella casa c’è anche lei, perché le stanze grandi e ariose che lui preferisce abitare quando è da solo, si fanno asfittiche se le abita con lei, con la quale preferisce stanze più contenute che lo preservino dallo stare sempre in sua presenza, le parole di lui e di lei si scontrano, si intrecciano, si sovrappongono, ma non costituiscono quasi mai dei veri e propri dialoghi.
In una scrittura intelligentemente tutta volta a levare, ad accennare, invece che a parlarsi addosso, lei parla vacanze fatte in tenda, dove si risparmia e si va dove si vuole, lui di bed & breakfast dove l’attitudine di lei rovina la vacanza.
Lo spazio privato per eccellenza come quello di una casa da abitare, rimanda a una forma mentale, a un pensiero umano che nella misura, nella esplorazione, dello spazio trova l’espressione di una articolazione che altrimenti incombe inespressa. Proprio come la forma-nuvola che incombe sospesa dall’alto rappresentando la possibilità di tutte le forme, di tutti i pensieri, la totipotenza di una forma colta prima della sua declinazione.
Se lei mal sopporta alcune rudezze di lui (il calzino indossato per tutto il giorno che porta anche a letto) lui si sente sfidato e discusso, costretto a una forma, nella relazione con lei, alla quale vorrebbe sottrarsi ed essere altro e altrove.
C’è un gioco di rimandi e di rispecchiamenti continui nello spettacolo (ma la parola è limitante) tra un qui e un altrove, tra un dentro e un fuori, tra una casa posseduta e arredata e una tenda semplice che è il capovolgimento di quel nucleo borghese che rappresenta l’abitazione.
La citazione di Gaston Bachelard, posta in esergo nelle note di regia, è la cornice di riferimento della ricerca coreutica e drammaturgica di Pol e Sirna, portata avanti con coerenza e rara intelligenza scenica.
La casa è davvero una delle più grandi potenze di integrazione* per il pensiero i ricordi e i sogni dell’essere umano (Bachelard usa il sessista “dell’uomo” ma d’altronde scrive La poetica dello spazio, da cui la citazione è tratta, nel 1957…).
Questa potenza di integrazione dirompe nel primo quadro dello spettacolo (Il litigio) in tutta la sua energia animando tanto i momenti di danza quanto quelli dello scontro tra i due personaggi, uno scontro più esistenziale che verbale e che scaturisce dall’incoercibilità di due diverse esistenze che non possono mai occupare lo stesso spazio e lo stesso tempo come invece pretende il quadretto edificante della famiglia idilliaca borghese, meglio: abitare una stessa idea di spazio privato che finisce sempre per costituire il compromesso per uno dei due elementi della coppia. Ma se non si vive insieme? Mantenere una casa individuale è fuori portata economica, ma si può sempre tronare a casa dai genitori…
Una inconciliabilità tra pensieri che tradisce la vacuità del nucleo abitativo borghese oggi più svuotato di senso che mai.
Un interno borghese che è stato il primo nucleo esplorativo del lavoro di ricerca che Pol e Sirna hanno intrapreso nel collettivo Agostino Bontà, che hanno contribuito a fondare, nato durante il biennio di formazione Scritture per la danza contemporanea diretto da Raffaella Giordano.
Ne è scaturito un work in progress articolato in tre quadri, Il litigio, finalista al Premio Scenario 2017, il rifugio, presentato l’anno scorso in prima nazionale al Festival Inequilibrio, entrambi in scena a Carrozzerie n.o.t. e l’ancora inedito Il trasloco che vedremo a Inequilibrio 2019.
Un lavoro nel quale, come si legge nelle note di regia, le dinamiche di coabitazione e di prossimità all’interno di uno spazio domestico sono state indagate secondo le direttrici del rapporto tra scrittura scenica e gesto coreografico.
Un gesto coreografico che fa letteralmente scivolare i due personaggi tra il primo e il secondo quadro in un lento, impercettibile all’inizio e poi sempre più evidente lasciarsi andare dei due, fino quasi a uno sciogliersi sul pavimento in una forma liquida che permea tutto la scena.
Il secondo quadro, Il rifugio, si apre con l’allestimento in scena di una tenda da campeggio, che rimanda a quella tanto decantata da lei e che, sulla scena vuota, evoca uno spazio aperto dove normalmente le tende vengono montate.
Invece siamo dentro l’abitazione, e la tenda è un tentativo di rappacificazione tra i due, un incontrarsi in uno spazio dedicato, appositamente costruito insieme. Una parentesi dello spazio più vasto che coabitano, nella quale stare insieme.
La tenda si fa dunque coagulo simbolico tra il dentro e il fuori, squisita potenza di integrazione e, al contempo, apoteosi della messinscena teatrale in cui, a seconda della cornice narrativa, uno stesso oggetto di scena evoca paesaggi e orizzonti totalmente diversi.
E proprio come è la cornice narrativa del teatro a dare senso e significato alla scena le cornici di abitazione danno forma, contengono le idee e i pensieri della coppia borghese, di lui e di lei.
Una potenza di integrazione agita mutatis mutandis tanto dall’abitazione quanto dal teatro, che coincidono, nello spettacolo, in maniera magistrale.
E mentre i due personaggi cercano di ricucire i fili strappati di un discorso che non ha mai davvero avuto luogo, perché i dialoghi sono in realtà sovrapposizioni di monologhi autoreferenti, la tenda riporta alla memoria di entrambi ricordi ludici dell’infanzia dove il contrappunto tra i ricordi di lui e quelli di lei si staglia il loro vissuto emotivo, tra il gioco e le prime schermaglie amorose, compresi certi i cambiamenti fisici dei loro corpi diversamente sessuati in un confronto suggestivo e di rara potenza.
Così mentre lui ricorda i successi delle prime ragazzine che gli facevano il filo e l’invito provocatorio ma concreto fattogli da una altro ragazzino (e lui commenta lo chiede a me?) lei gli risponde con il ricordo delle gambe non più piene di croste delle sue amiche, che non giocavano più per i campi, o della cugina che non si toglieva più la canottiera perché le stavano crescendo i seni.
Ed ecco come un cambiamento fisico costringe le ragazze a una rinuncia della quale i ragazzi non fanno mai esperienza, una interdizione dettata non da contingenze fisiche ma da una pressione sociale basata su quei ruoli sessuati (oggi si dice di genere) cui siamo tutti e tutte educastrate (per usare le parole di Mario Mieli).
Alla fine del secondo quadro incombe la notte durante la quale dalla tenda in cui entrambi i personaggi si sono rifugiati spunta un arto di lei, uno di lui, proprio come durante la notte ci si scopre un braccio o una gamba dalle coperte.
Poi lui, solitario, vaga nei dintorni della tenda, con tanto di lampada da camping, vago e ondivago, e viene sorpreso da lei che, cercandolo con indolenza, gli dice a sei lì?
Alla fine le note dei giardini di Kensington (versione italiana di Patty Pravo di Take a Walk On the Wild Side di Lou Reed) sostegno Elisa Pol e Valerio Sirna mentre ritornano in scena per i meritatissimi applausi.
I giardini di Kensington si distingue per l’intelligenza di una scrittura viva, sincera, incarnata dalla fisicità dei suoi interpreti, entrambi felicemente adeguati sia nel restituire i movimenti di danza che nel recitare quel teatro di parola che la loro scrittura fa rivivere di una energia nuova, inedita, viva e giovane, che sorprende e dà speranza, sia per le relazioni interpersonali mostrate così teneramente in tralice, sia per la salute del teatro italiano che, a vedere questo allestimento, non è mai stata così buona.
Visto a Carrozzerie n.o.t il 26 aprile 2019
* rendiamo così quel puissances d’intégration dell’originale francese perché la traduzione italiana di Catalano “potenti elementi di integrazione” non ci convince affatto.
I Giardini di Kensington
uno spettacolo di e con
Elisa Pol e Valerio Sirna
disegno luci Mattia Bagnoli elaborazione del suono
Flavio Innocenti e Valerio Sirna scultura di Mattia Cleri Polidori e Giulia Costanza Lanza
collaborazione tecnica
Nikki Rodgerson / Mutoids
residenze artistiche
Armunia
Residenze Artistiche Castiglioncello, Nerval teatro, Santarcangelo Festival,
Atto Due – Laboratorio Nove, Spazio ZUT!
Progetto Cura, Florian Espace
Progetto OIKOS
un ringraziamento a Barbara Bessi
progetto finalista premio Scenario 2017
(29 aprile 2019)
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