Sul palco spoglio campeggiano sulla parete di fondo una sedia e di proscenio, a sinistra, una serie di scatole impilate che formano una sorta di colonna.
Quando si fa buio in sala, entra una donna, una vistosa parrucca rosa fucsia in testa, scarpe con brillantini e mezzo tacco, una sottoveste nera. Il volto illuminato dal riflesso dello schermo di un pad che regge davanti il viso, faccia assorta e seria. All’inizio sembra stia leggendo qualcosa ma poi un sorriso evidentemente rivolto allo strumento ci fa intuirebbe sta cercando di prodursi in un selfie. Una serie di selfie sempre più compositi e articolati, la cui attenzione si sposta su altre parti del corpo, alla ricerca di un punto di vista, di un’angolazione esotica, per la quale la donna inarca il busto all’indietro. Ne scaturiscono alcuni passi di danza nei quali il pad fa da bilanciere, da controparte, da perno di equilibrio. Senza musica, nel silenzio emerge solamente il rumore dei suoi passi, mentre si produce in pose via via sempre più plastiche, quasi ginniche, la mano che tiene il pad che va verso dietro a inquadrare la nuca ed ecco che, liberata dallo strumento informatico, la mano rimasta dietro saluta, prima querula, poi via via sempre più nervosa. Il tremore si ripercuote per tutto il corpo, diventa una convulsione e la donna cade per terra e perde scarpe e parrucca, mostrando i suoi capelli biondi. Esanime la donna si rialza e raccoglie pad scarpe e parrucca, reggendoli in petto mente esplora lo spazio e viene subito attratta dalla pila di scatole, novella primate di 2001 con il monolito: guarda ora a destra, ora a sinistra, sporgendo da dietro con facce divertite, poi apre alcune scatole, dalle quali emergono alcune suppellettili, un vestito succinto, un rossetto, una mela, un ventilatore, la testa di una tigre. La performer si cimenta con ognuno di questi oggetti, incarnando diversi personaggi femminili, diverse maschere femminine, alcune immediatamente riconoscibili (Eva la mela e il serpente; l’iconica Marylin con la gonna sollevata da un ventilatore) altre eterodirette (il rossetto messo per piacere allo sguardo altrui) mentre la voce di un uomo, registrata su nastro, dirigendo i movimenti di un’altra donna, anche lei su nastro, e la nostra si adegua e segue quei consigli, ma le espressioni del viso richieste dalla voce maschile, così come le ferite sul volto emaciato descritte dall’uomo, non le vediamo visto che la nostra indossa una testa di tigre… Altre maschere, altre pose, attitudini sembrano scaturire dalla musica che suggerisce movimenti, reazioni, passi.
Kashimashi nasce come opera di ricerca sugli stereotipi femminili, subito dopo il lockdown. Eravamo tutti un po’ lontani, e allora ho inviato una richiesta di partecipazione via mail a molte persone che conoscevo (…) chiedendo di rispondere alla domanda: «in quale stereotipo ti riconosci?» spiega Natasha Czertok, autrice e interprete dello spettacolo, in una bella intervista (la potete leggere qui). Ho iniziato a intrecciare quella che era la mia ricerca e il lavoro che già stavo facendo con tutte queste immagini e questi interventi che sono arrivati dall’esterno (…). Gli audio che mi sono stati inviati, le musiche dei vari contributi, sono stati poi inseriti all’interno della traccia sonora dello spettacolo elaborata da Vincenzo Scorza.
Kashimashi è un termine giapponese che significa caso, irrequietezza. L’ideogramma che rappresenta questa confusione è il disegno di tre donne che parlano tra di loro con un tetto sopra la testa. Starebbe a significare che tre donne messe insieme creerebbero il caos.
Natasha Czertok del ferrarese Teatro Nucleo anche nel titolo dello spettacolo fa del femminile e della sua liberazione dall’oppressione concreta e culturale la sua azione specifica di ricerca.
In scena Natasha mostra come il caos lungi da essere un’emanazione femminile proviene dagli stereotipi attraverso i quali le donne cercano di esprimersi. Perchè per essere bisogna farsi riconoscere, e per farsi riconoscere bisogna utilizzare un linguaggio condiviso, con la stessa simbologia, che ha sempre un significato interno a una cultura (la mela dell’Eden ha un senso solamente nelle culture che si riferiscono alla Bibbia) utilizzando l’immaginario collettivo della maggioranza, altrimenti si finisce per una espressione di sé solipsistica che non raggiunge persona alcuna.
Uno (stereotipo di) femminino per esprimere il quale o anche per smarcarsi dal quale, bisogna comunque far riferimento. Ed ecco che gli stereotipi portati sul palco vengono smontati nel loro significato archetipale attraverso una messinscena, una performance, intrisa di ironia e consapevolezza, agendo sul pubblico con un’opera di dissuasione mostrando la mitopoiesi dello stereotipo nel suo costruirsi artificioso come ha spiegato magnificamente Czertok: gli stereotipi che ho individuato come modelli, personaggi che affronto nello spettacolo, è come se fossero tante solitudini, tanti lati di una stessa donna. È un po’ come se dentro una stessa donna, uno stesso personaggio, vivessero tutti questi elementi. Ed è anche questa una caratteristica che ho scoperto un po’ lavorando, facendo questa lunga ricerca.
L’elemento drammaturgico più importante di Kashimashi non è solamente l’individuazione degli stereotipi per irriderli, come lo spettacolo fa, ma mostrarne la loro ineluttabile necessità per poter performare il genere, non solamente quello femminile ma anche quello maschile per il. quale gli stereotipi femminili sono pensati (e viceversa) perchè gli stereotipi di genere ingenerano attese di genere, comportamenti ritenuti consoni o meno, etc.
Kashimaski ci ricorda che l’importante non è rinunciare agli stereotipi tout-court, cosa impossibile da fare, perchè nel nostro essere nel mondo abbiamo bisogno di un immaginario collettivo che ci esprima, ma diventare e rimanere consapevoli delle aspettative, dei ruoli, delle interdizioni che questi stereotipi portano con sé, e ridicolizzare l’assolutismo e il binarismo di questi stereotipi e delle loro aspettative.
Natasha Czertok è bravissima nel restituire gli stereotipi, le loro proiezioni e aspettative, con un linguaggio del corpo e una espressività del viso di enorme efficacia dovuta a una padronanza della micro-mimica del viso e del linguaggio del corpo, mostrandosi al pubblico in una azione che è il riflesso degli stereotipi facendo di quella mostrazione una riflessione collettiva nel momento in cui un gesto, un attitudine, un cambiamento della postura, indotto da un rossetto o da un abito indossato, fanno riconoscere al pubblico quelle aspettative e obblighi ai quali ci conformiamo tutti e tutte insieme, nella vita sociale, esattamente come a teatro, che è un atto di socialità collettiva a sua volta.
Kashimaski è un gioiello nella programmazione di Binario Trenta che è un teatro che fa resistenza culturale a Roma come ha ben detto Natasha Czertok mentre ringrazia il pubblico numeroso che la applaude copiosamente.
Kashimashi
di e con Natasha Czertok
Produzione Teatro Nucleo
con il sostegno di Regione Emilia-Romagna e MiC
disegno del suono Vincenzo Scorza, Alessandro Campioni
maschera Beatrice Pizzardo
disegno luci Franco Campioni
Visto per voi al teatro Binario 30 di Roma il 22 novembre 2025
(23 novembre 2025)
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