Ecuba #Vistipervoi o della follia omicida maschile

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di Alessandro Paesano #Teatro twitter@gaiaitaliacom #Ecuba

 

Maneggiare i classici del teatro greco è sempre difficile: è impossibile restituire sui palcoscenici di oggi quel rito collettivo, religioso e democratico della città di Atene cui assisteva il pubblico del V secolo prima dell’era volgare.

Non c’è solamente lo scarto di conoscenza e consapevolezza tra il pubblico di allora e quello di oggi a creare difficoltà ma anche quello incolmabile di chi faceva teatro in un edificio di pietra all’aperto contrapposto ai teatri odierni al chiuso.

Per cui quando si porta in scena una tragedia attica si  ha sempre più a che fare con le interpretazioni di oggi su quei testi che con la filologia del teatro di allora. Poco importa dunque ricordare qui le caratteristiche stilistiche dell’Ecuba di Euripide, tragedia divisa in due la morte della giovane figlia di Ecuba Polissena nella prima parte, il ritrovamento del cadavere di Polidoro, il figlio più giovane allontanato dalla città nel tentativo risultato invano di proteggerlo, nella seconda.

Argirò ci presenta la tragedia Ecuba dal punto di vista degli effetti di una guerra devastante, di una follia omicida maschile che ricade su tutti e tutte, donne, giovani e vecchie.

Un discorso che il regista sente profondamente attuale tanto da allestire la scena con i resti di una tecnologia analogica molto più vicina a noi che all’antica Attica  (orologi e vecchie suppellettili di legno giacciono sulla scena come resti di una distruzione già compiuta da tempo) vicina a noi anche nei costumi. Argirò fa indossare sopra a dei vestiti sobriamente antichi dei lunghi cappotti con doppie file di bottoni dorati di un tono di blu Prussia per Ecuba, l’ancella e la corifea e di un verde quasi militare per Polissena.

I protagonisti maschili vestono invece abiti borghesi ottocenteschi.

Il riferimento è elegantemente insistito e ci richiama a una responsabilità collettiva che ricorda molto da vicino quella cui era chiamato il pubblico di allora.

Un uso sobrio di immagini in movimento proiettati nel fondale di quinta (boschi, il mare) e di didascalie che introducono i personaggi, suggellano un sincretismo tra classicità e modernità essenzialmente riuscito e coerente.

Francesca Benedetti appena appare in scena prima di indossare i panni di Ecuba accenna al lavoro dell’attrice alla sua dedizione al personaggio.
Non sono le uniche interpolazioni del testo atte da un lato a sottolineare il carattere dello sterminio  che il popolo di Polissena (é lei a usare quella parola) e Ecuba ha subito e dall’altro a sottolineare le esitazioni di chi quella strage è stato chiamato, suo malgrado, a farla (Menelao che si definisce ombra tra i viventi).
Argirò declina le istanze della tragedia greca con quelle del teatro borghese e ci riesce  molto bene pagando però un prezzo che se serve la sua causa di denunciare le guerre di tutti i tempi sacrifica alcuni nodi imprescindibili della tragedia euripidea.

La centralità della figura femminile nell’Ecuba (a cominciare dal titolo) non viene restituita con sufficiente efficacia.
Che le donne potessero vendicarsi come gli uomini è un comportamento che veniva considerato innaturale allora (che la donna nemmeno poteva accedere al teatro, recitato tutto da uomini) come oggi (visto che molti commenti accademici considerano ancora oggi Ecuba un personaggio poco femminile sic!).

La questione femminile che Ecuba, il personaggio quanto la tragedia, rappresenta, si perde un poco nella regia di Argirò che contrappone alla recitazione ieratica, classica, magistrale e indimenticabile della grandissima Francesca Benedetti (il suo urlo soffocato, sussurrato ma lo stesso potentissimo quando Ecuba riconosce il cadavere di Polidoro è uno dei momenti indimenticabili dello spettacolo e del teatro tutto) a una certa disinvoltura interpretativa dei personaggi maschili che, sfiorando la commedia, sanno facilmente imporsi sul personaggio troiano. E’ come se Ecuba fosse rimasta la sola incarnazione del mondo classico mentre i personaggi maschili siano tracimati nella modernità che si fa nostro contemporanea. Uno strabismo di regia nel quale si perde la centralità del personaggio di Ecuba e si è distratti dalla verve dei personaggi maschili quasi al punto da non giustificare più il titolo della tragedia (Ecuba e gli uomini sarebbe stato un titolo più adatto).

Non aiutano alcuni tagli al testo.
Quando Ecuba risponde a Menelao che dubita lei sia capace di vendicarsi senza l’aiuto degli uomini Euripide le fa rispondere ricordando alcune vendette esemplari organizzate da donne (come quella delle Dànae) che al pubblico odierno dicono poco ma che servivano la causa femminile.
Meno comprensibile invece l’espunzione del fantasma di Polidoro in apertura di tragedia che Argirò avrebbe potuto agevolmente convertire a quel gusto gotico di certo teatro ottocentesco rimanendo in linea con la sua rivisitazione scenica.

Piccoli tagli che non inficiano una messinscena essenzialmente riuscita che restituisce il senso di un testo antico in maniera comprensibile e godibile.

Della grandezza di Fracesca Bendetti si è già detto, vogliamo solo aggiungere che vederla sulle scene è un privilegio del quale le siamo molto grati.
Bravi gli interpreti maschili coi limiti, di regia, cui si è detto (qualche esitazione nel Taltibio di Graziano Piazza  che sicuramente verrà meno con l’aumentare delle repliche fatte).

Anche il resto delle interpreti femminili porta a casa la serata, soprattutto Viola Graziosi che ha solo una scena per farsi ricordare, mentre un poco sfocate  risultano Maria Cristina Fioretti e, soprattutto, Elisabetta Arosio dall’interpretazione ovattata (e qui chissà se il maggiore rodaggio scioglierà il nodo interpretativo o no…) ma potrebbero anche essere esitazioni della regia…

Fa immenso piacere che lo spettacolo sia stato visto da una sala gremita dove accanto a persone grandi d’età ci siano anche tanti giovani, i teatri vanno sempre riempiti e quando la messinscena vale riempirli diventa un dovere, un impegno civile per sostenere uno strumento sempre più tradito e frainteso che va difeso con le unghie e coi denti da chi lo fa bene, come Argirò e il suo cast, ma anche, se non soprattutto, dal pubblico che è il solo che può mantenerlo in vita.

Prima che lo spettacolo iniziasse è stata presentata l’iniziativa dell’AGIS  Libro che spettacolo, che, giunta alla sua dodicesima edizione, promuove la lettura nello spettacolo dal vivo. Si propongono al pubblico in sala la lettura di un bran di un libro fresco di stampa, accompagnato dall’autore o dall’autrice come nel nostro caso Cinzia Tani che ha presentato il suo romanzo storico Donne di Spade ambientato durante nel cinquecento di Carlo II.

Un modo per far incontrare letteratura e teatro che ci pare salutare intelligente ed efficace.

 

 




 

 

(25 marzo 2019)

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