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Short Theatre 11, #Vistipervoi giorno 7: Amendola/Malorini, Muta Imago, Bluemotion

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short-theatre-11-03-bluemotion-caffettiera-bludi Stefano Cangiano   twitter@stefanocangiano

 

 

Cosa separa la colpa dal senso di colpa? Un abisso, ed è questo abisso che Nessuno può tenere Baby in un angolo esplora, setaccia, draga, in cerca di un senso che si disperde nel buio delle profondità della vita di Luciano Schiamone detto Lucio, benzinaio ma soprattutto “uno che poteva fare qualcos’altro”.

Il protagonista di questo monologo tripartito si muove con una consapevolezza della propria condizione che oscilla tra la serena accettazione della vita e la spinta verso un necessario riscatto dopo un’esistenza di compromessi al ribasso. Un benzinaio con pose da esistenzialista che diventa il perno di una vicenda oscura, un crimine incomprensibile e che sembra già risolto, a cui ogni passo in avanti della drammaturgia aggiunge elementi in più per chi osserva.

Lucio riflette e lo spettatore è partecipe della sua riflessione, mentre si configura quello che è a tutti gli effetti un interrogatorio, in cui lui è l’unico indiziato. Si alternano riflessioni sull’ipocrisia delle trame sociali quotidiane, sulla dittatura delle apparenze che governa la società contemporanea, sulla possibilità residuale di intrecciare rapporti di coppia autentici e intanto la storia si fa nebulosa. Lucio palesa il suo malessere di fronte alla novità di un incontro con una donna che lo pone forzatamente a contatto con le proprie aspettative deluse. Un incontro da cui sembra essere sopraffatto.

In questa materia intricata in cui all’equivoco pare di poter attribuire la genesi dei fatti, si alternano vari registri. Si passa dal grido di dolore lanciato verso il cielo al paradossale intermezzo con cadenza spagnola, dal racconto piano e disteso alla ricostruzione allucinata. E purtroppo qualcosa viene perso per strada. In Nessuno può tenere Baby in un angolo si lavora per accumulo invece che per sottrazione e questo a discapito di un lavoro pieno di energia, capace di sollecitare la sfera emotiva dello spettatore e che ambisce a scuotere anche la nostra parte più razionale. Meno parole e più linearità con un lavoro più mirato sulla compiutezza del personaggio lo avrebbero reso ancora più incisivo.

Spostandosi verso altri lidi, si arriva ai Muta Imago, che con Polices! realizzano una sorprendente indagine teatrale sulla violenza di Stato, sfruttando al massimo la forza evocativa delle immagini e dei suoni, innestati sull’ottimo lavoro attoriale di Monica Demuru.

La drammaturgia è di Sonia Chiambretto, che costruisce un percorso attraverso i punti focali di una storia di violenza e arbitrio da parte della polizia francese, sottraendo al cono d’ombra figure come il prefetto Maurice Papon e istituzioni come la Compagnies Républicaines de Sécurité, un corrispettivo del Nucleo antisommossa italiano.

Che si tratti di un’irruzione in casa, di un intervento nel corso di una manifestazione, di un’azione condotta in una scuola o dell’atmosfera asfittica dell’addestramento cameratesco, la violenza rimane sempre la stessa e si fà ossessione.

Ciò che conferisce maggior forza a Polices! è l’impianto registico, il raccordo equilibrato tra la componente visuale e soprattutto quella sonora. Perché Polices! è prima di tutto uno spettacolo di voci, di suoni che si stratificano come colpi, come ferite, vibrazioni che alimentano il caos necessario alla violenza per manifestarsi brutalmente e a i responsabili per rimanere impuniti. Uno dei momenti più belli di Short Theatre 11.

Anche Caffettiera blu, portato in scena da Bluemotion, è uno spettacolo sorprendente. Il collettivo artistico si è confrontato con la drammaturga inglese Caryl Churchill e lo ha fatto con grande efficacia espressiva.

Essenzialità e simmetria sono i due cardini registici utilizzati per ridurre a una misura comprensibile la vicenda di Derek, che è sulle tracce della sua madre naturale e non si nega nessuna possibilità. Questo perché la sua non è una ricerca metodica, non è motivata da un bisogno reale ma solo da una convenienza.

Attori e spettatori, tutti siedono attorno al tavolo che occupa il centro della scena e che diventa l’emblema dell’incomunicabilità. Proprio qui Derek inscena la sua performance e olia il meccanismo dell’inganno, lubrificandolo con incomprensioni su incomprensioni e il pubblico osserva divertito, spaesato e rapito.

Il gergo del non dicibile entra progressivamente nei dialoghi e le parole “blue” e “caffè” iniziano a farsi spazio, declinate in ogni forma possibile, fino a prendere il sopravvento. Perché quando l’artificio che tiene insieme la vicenda del protagonista viene svelato ogni parola diventa vana, ogni didascalia una pretesa, ogni grado di comunicabilità si riduce a zero.

Gli strumenti offerti dalla drammaturgia trovano un campo fertile dove proliferare, la storia e i personaggi catalizzano l’attenzione anche grazie al lavoro degli attori, così Bluemotion si trasforma in una boccata d’aria, un ristoro teatrale che bisognerebbe concedersi a tutti costi.

Bluate questo spettacolo, caffettatelo!

 

 

 

(15 settembre 2016)

 

 

 

 

 

 

 

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